venerdì 8 febbraio 2013

Pensare mi riguarda ?

 "Cogito ergo sum." Questa deduzione è nota a tutti. Ma la premessa dai cui parte è vera, è cioè una realtà il fatto che io pensi oppure mi sto ingannando? Ha valore stabilire se tra i tanti atti quotidiani ce ne sia anche solo uno che decisamente vorrei chiamare 'pensare'? Che cosa ne andrebbe della mia vita se rinunciassi a questa spinta a pensarmi pensante? Quando la schermata di facebook ti chiede "Cosa pensi?" non vorresti mai rispondere che non pensi a un accidenti di un niente? E allora come ti senti? Non ti senti forse in difetto, come se non avere neanche un pensiero fosse come ritrovarsi all'improvviso al bar senza neppure uno spicciolo in tasca? Dopo la figuraccia uno comunque il caffè se lo prende poi a casa. Ma uno senza pensieri dove caspita va? Uno così sta peggio di un senzatetto perché questi, seppur fredda, come casa ha la strada mentre quello una casa non ce l'ha. Lo conoscete voi uno così? Lo frequentereste? Ma poi, non vi capita mai, anche proprio a voi stessi di essere così? E allora che fate? Smettete di frequantarvi come se non vi conosceste?
Purtroppo dietro alla domanda della schermata di Facebook che ci interpella appena apriamo quella finestra credo ci sia un'idea di ciò che sia pensare troppo simile a quella suddetta per la quale chi non pensa è un poveraccio come chi non ha denaro. Così entriamo in ansia e gliela facciamo vedere noi! Forse non penso un accidenti di niente però guarda che belle immagini ti schiaffo sullo schermo, guarda che link strafico, senti qui che musica!

Si può però avere un'altra idea di cosa sia pensare. Intanto si può rispondere di sì, si può scegliere di stabilire che è una cosa molto importante che almeno uno tra i tanti atti quotidiani sia anche l'atto di pensare. Anzi, solo il pensare è un atto vero e proprio mentre gli altri sono movimenti esistenziali troppo generici per meritare questo nome e dunque la considerazione di quell'unica attività nella quale, accadendo qualcosa, possiamo finalmente essere felici. Salvatore Natoli ci fa notare molto provvidamente che la parola inglese 'felicità' viene dal verbo to happen. Come ognuno di noi certo già sapeva senza sapere di saperlo esiste dunque un nesso fondamentale tra il succedere e la felicità. E dunque tra il pensiero e la felicità. Questi collegamenti ci liberano però dall'idea che pensare sia far succedere qualcosa di strabiliante come lo choc che diede il cesso di Marcel Duchamp messo in cornice. Ciò che deve accadere per essere felici è il sentimento dell'unicità, ci sono altre parole di Salvatore Natoli che non ritrovo in questo istante che dicono molto bene questo atto. Sono però di estremo aiuto in proposito anche le parole di Edith Stein che volentieri cito di nuovo in questo sito: "Agire è sempre produrre qualcosa che non è presente." Queste parole ci fanno capire perché il pensiero non sia una botta di genialità, una trovata eccentrica e molto smart, come suggerirebbe Facebook con la sua domanda apparentemente innocua. Se il vero e proprio agire è solo l'atto di pensare, se agire in senso eminente è pensare, allora, in base alle parole di quell'allieva cui il maestro Husserl preferiva Heidegger, pensare è produrre qualcosa che non è presente.
Ora, però, c'è da dire che la dimensione della virtualità delle telecomunicazioni è quella in cui niente è davvero presente. Comunicare non significa infatti scambiarsi oggettini pensati come al mercatino dell'usato. Spesso Facebook si riduce invece a una vetrina, al banco di un mercato in cui ognuno espone la sua merce pensiero. Ma il pensiero non è una merce di scambio. E' piuttosto una casa in cui convivere, una casa in cui star comodi e sicuri insieme, o anche scomodi e in lotta, ma una casa per cui lottare. Comunicare non vuol dire mettere in comune pensieri che già si avevano prima come si potrebbe fare per i soldi. Se facciamo attenzione ci rendiamo conto che il confronto non è che il lato più superficiale del dialogo con l'altro. La logica del nostro problema non ha tanto bisogno di essere equiparata a quella di qualche altro come si fa nelle analisi di mercato. Piuttosto ogni nostro problema trova la sua logica solo nel dialogo perché all'interno di questo contesto dialogico si produce qualcosa che non era presente e quindi che non era pensato, che era ancora inattivo. Ma leggiamo le parole di Guido Calogero:
"Portato il problema sul piano della comunicazione, io non rimedio all'angustia autarchica e quindi tautologica del mio logo se non attuando il dialogo: non già creando, ancora una volta, un logo del dialogo, il quale tornerebbe a essere non meno autosufficiente e quindi autologico, del primo logo."