Il prezzo, ossia la forma di denaro delle merci, è,
come la forma valore in generale, una forma distinta dalla forma corporea tangibilmente reale, quindi è solo forma ideale, ossia rappresentata.
(Il capitale,
Libro I, cap. 3)
Da
questo momento il valore non sarà più deciso soltanto nel registro
dell’idealità ma addirittura in quello della spiritualità, perché, là dove il
valore di una merce, la sua essenza, non coincide più col suo corpo, ogni merce
si troverà a esprimere l’antica opposizione spiritualista tra un’anima e un
corpo. […] Queste analogie fra teologia ed economia non sfuggono a Marx:
A prima vista una merce sembra una cosa triviale e
ovvia. Dalla sua analisi risulta invece che è una cosa imbrogliatissima, piena
di sottigliezze metafisiche e capricci teologici. Finché è valore d’uso non c’è nulla di miterioso in essa, sia che la si
consideri dal punto di vista che essa soddisfa con le sue qualità bisogni
umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto del lavoro umano.
Così, per esempio, quando si fa un tavolo, la forma del legno viene
trasformata, ciò non di meno il tavolo rimane legno, cosa sensibile e
ordinaria. Ma appena si presenta come merce,
il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta
coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in
giù e sgomitola dalla sua testa di legno grilli molto più mirabili che se
cominciasse a ballare. Dunque, il carattere mistico
della merce non sorge dal valore d’uso […]
ma dal valore di scambio, a cui il
tavolo accede quando assume la forma di merce. […] Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro
diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili.
(Il capitale,
Libro I, cap. 1)
Esiste
infatti un sistema rigoroso della metafora
che, attraverso il lavoro delle equivalenze e sostituzioni, porta su registri
che sono sempre più distanti dal corpo, fino a farlo dimenticare sostituendolo.
L’analisi del valore, che comincia nel momento in cui interviene un equivalente, inizia con una sostituzione, dove il corpo della cosa,
differente nella sua materialità dal corpo delle altre cose, si perde nel
valore in-differente dell’oro o del denaro che lo sostituisce. Inoltre, per
acquisire la forma dell’oro o del denaro, una cosa non deve essere consumata, ma scambiata, e lo scambio può intervenire solo se l’uso della cosa
viene differito, indefinitamente
differito, per cui si può dire che il valore
nasce innanzitutto dalla negazione della fruizione della cosa. […] Al
rapporto naturale e originario che lega l’uomo all’uso dei suoi beni e il corpo
alla soddisfazione dei suoi bisogni, l’economia sostituisce quel valore di
scambio che separa i due termini […] per ridurre il corpo all’equivalente
generale del lavoro, e il bene all’equivalente generale dell’oro. Al centro del
sistema economico c’è dunque una categoria morale e religiosa: la rinuncia non all’eccedenza dei beni,
come nel potlàc dei primitivi, ma
alla vita del corpo per l’accumulo dei beni.
L’economia, nonostante il suo aspetto mondano e
voluttuario, è una scienza realmente morale, la più morale delle scienze,
perché ha come suo dogma la rinuncia a se stessi, la rinuncia alla vita e a
tutti i bisogni umani. Quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al
ballo e all’osteria, quanto meno pensi, ami, fai teorie, canti, dipingi,
verseggi ecc., tanto più risparmi, tanto più
grande diventa il tuo tesoro che né i tarli né la polvere possono
consumare, il tuo capitale. Quanto
meno tu sei, quanto meno realizzi la
tua vita, tanto più hai; quanto più
grande è la tua vita alienata, tanto più accumuli il tuo essere estraniato.
Tutto ciò che l’economia ti porta via di vita e di umanità, te lo restituisce
in denaro e ricchezza; e tutto ciò che tu non puoi, può il tuo denaro. Esso può
mangiare, bere, andare a teatro e al ballo, se la intende con l’arte, con la
cultura, con le curiosità storiche, col potere politico, può viaggiare; può insomma impadronirsi per te di tutto
quanto; può tutto comprare: esso è il vero e proprio potere. Ma pur essendo tutto questo, non è in grado di produrre
null’altro che se stesso, né di comprar nulla fuor che se stesso, perché tutto
il resto è ormai suo schiavo. E se io ho il padrone ho anche il suo servo, e
non ho bisogno del suo servo. Così tutte le passioni e tutte le attività devono
ridursi all’avidità di denaro. Chi
lavora può aver soltanto quanto basta per voler vivere; e può voler vivere
soltanto per avere.
(Manoscritti
economico-filosofici del 1844)
Sostituito
l’essere con l’avere, il mondo col possesso del mondo, il corpo non ha più
terra da abitare, i suoi sensi non hanno più senso. Il vedere, l’udire,
l’odorare, il gustare, il toccare, in una parola la vita del corpo non è
possibile se non si ha il denaro per vedere, udire, odorare, gustare, toccare.
Scrive Marx:
Tutti i sensi fisici e spirituali sono stati sostituiti
dalla semplice alienazione di essi tutti:
dal senso dell’avere.
(Manoscritti
economico-filosofici del 1844)
Io
sono ciò che ho, e se non ho non sono. Se ho denaro i miei bisogni possono
essere soddisfatti e i miei desideri realizzati, se non ho denaro non solo le
mie rappresentazioni non diventano realtà, ma la stessa realtà rimane pura
rappresentazione. Qui è l’alienazione
originaria […] perché quando il corpo è piegato nel lavoro per la produzione del valore deve darsi tutto
senza alcuna riserva, facendo di sé quel dono totale che non può essere oggetto
di nessuno scambio […perché è] l’ ”altro” la dimensione [sociale] richiesta
perché si instauri comunanza di valore. (pp.103-7)
[…]I
primitivi scongiuravano questa eventualità con il potlàc dei beni, con la distruzione sontuosa di immense ricchezze
che, accumulate, avrebbero acquistato quel valore
che essi temevano come “la parte maledetta”, perché avrebbe sbilanciato i
rapporti sociali a favore di chi possedeva. (p.20)
[…]
Le comunità arcaiche sono il luogo della circolazione dei simboli che si
scambiano tra loro senza riflettersi in un Significante supremo […]. La
circolazione dei simboli nelle società primitive è libera e fluttuante e non ha
nulla in comune con la rigida circolazione dei segni all’interno di un codice,
com’è nell’ordine delle nostre società, dove i corpi sono sottratti
all’ambivalenza dei loro possibili significati, per essere consegnati
all’identità di gruppo a cui devono as-similiarsi e uni-formarsi nella
rimozione delle differenze. […] In questo regime i segni acquistano serietà e i
corpi diventano solo lo spazio della loro scrittura. Il loro linguaggio cessa
di essere “espressivo” per diventare “indicativo” del Significante supremo.
(p.17-18).
Contro
questo inganno il corpo rimette in gioco la sua natura polisemica, rifiutandosi
di offrirsi all’economia politica esclusivamente
come forza-lavoro, all’economia libidica esclusivamente come fonte di piacere,
all’economia medica come organismo da sanare, all’economia religiosa come carne
da redimere, all’economia dei segni come supporto di significazioni. (p.25)
L’economia
politica è nata il giorno in cui si è incominciato ad accumulare l’eccedenza
della produzione che i primitivi distruggevano nel potlàc per scongiurare quella che essi ritenevano fosse la parte maledetta, ossia quei beni che,
sottratti allo scambio simbolico, perdevano la loro ambivalenza per accumulare progressivamente valore. Dallo scambio simbolico si passò al valore di scambio,
dalla distruzione dei beni alla loro sostituzione, che non poteva avvenire se
non sottintendendo la nozione di “valore”, senza di cui sarebbe stato
impossibile paragonare due beni tra loro per poterli scambiare “senza perdita”.
Nella nozione di valore è quindi implicito il principio platonico dell’unità
del molteplice, dell’equivalente generale, che sottrae tutte le cose alla loro
naturale ambivalenza. (pp.101-102)