lunedì 31 marzo 2014

Prime luci

Prime luci

Prime luci, candido volto di ninfa
che il pudore nell'imminenza di donna
tinge di rosa.
Pochi istanti e quel pizzico
di porpora nel latte,
tu ti levi in piedi
e ne fai il tuo trucco di amazzone del giorno.
Sei pronta, esci di casa.
Il tuo splendore strilla,
 i tuoi passi felpati di tigre color luce,
abbagliano la città
e tu su tutte sei la più bella.
Ma quel tuo candore incarnato,
 meno bianco e lucente
di questo tuo bianco
che ora abbaglia, non dimenticare.
Portane con te uno scampolo,
 una velina rosata da coprirti il volto
 quando davanti a un dolore
non vorrai ferirlo oltre con la tua presenza.

ontologia politica: ens et bonum convertuntur - bonum est faciendum

  • comunità e società
  • democrazia partecipativa - critica alla selezione dei beni
  • gruppi portatori di differenze altrimenti invisibili
  • passaggio da norme internazionali (diritto degli stati) a norme cosmopolitiche (diritto degli individui)  (nota che c'è maggior contatto tra il tutto e la parte singola piuttosto che tra il tutto e un raggruppamento di parti. Così l'idea di Young di arrivare alla visibilità politica degli oppressi realizzando l'equità sociale attraverso la rappresentanza corporativa contrasta teoricamente l'idea di Benhabib per cui l'apertura del gruppo nazionale grazie alla genesi di norme cosmopolitiche, l'iniezione in casa propria di questioni umanitarie extranazionali, impone la buona pratica del confronto con l'altro, in una iteratività di variazioni e integrazioni legislative che, come fosse un esercizio spirituale di democrazia, prepara il miglioramento della vita democratica stessa, l'accrescimento della sua plasmabilità ai principi e interessi altrui che la orienta in senso egualitario.
  • le dottrine liberali ritengono che alla base della moralità ci siano regole cui ogni persona in certe condizioni ideali darebbe il consenso (qui si può notare che più che ideali tali condizioni del consenso sono trascendentali, o relativa all'universale soggettivo kantiano)
  • il liberalismo ritiene che i principi di giustizia non presuppongano concezioni particolari del bene cioè che la categoria del giusto sia prioritaria e indipendente rispetto al bene
  • i neocomunitari criticano il liberalismo perché:
1. ignora che esistono molto visioni del bene in disaccordo e che non c'è una ragione imparziale per deciderne una;
2. la sua idea di neutralità può dar luogo a visioni opposte e incompatibili (p.es. egualitarismo moderato come Rawls e individualismo proprietario duro alla Nozick)
3. pone una separazione illusoria tra giustizia e visioni del bene, tra giudizio legale sull'ammissibilità di qualcosa e presa di posizione, giudizio morale sulla cosa stessa (come rileva A. Ferrara
  •  
    1.
    liberalismo                                  comunitarismo
    universalismo                             democrazia
     
    forma                                          materia
    giudizio legale                           giudizio morale
    è giusto                                      è buono
     
    valido sintatticamente               valido semanticamente
     
    inizio - arché                             prosecuzione, svolgimento - prattein
        
    unicità                                       iteratività
     
    senza contesto                              contestuale
     
     
    2.
    dalla notazione di salvatore natoli,  1196
    gli antichi non avrebbero mai chiamato il bene un valore perché il bene coincide con l'essere
    ens et bonum convertuntur
    Così il bene non è valutabile ma va semplicemente compiuto.
    Per noi moderni è il soggetto che valuta questo o quel bene, che pensa al bene (all'essere) in termini di valore e già ciò è motivo di crisi. (Abbiamo la convinzione di poter scegliere quell'essere che è invece ciò senza il quale non potremmo essere. vedi sotto.)
     
     
    3.
    metodo elenchico:
    « I principi innati nella ragione si dimostrano verissimi: al punto che non è neppure possibile pensare che siano falsi. »
    (Tommaso d'Aquino in Contra Gentiles I, c.7 n.2)
    Così i principi democratici (libertà, uguaglianza, solidarietà) non sarebbero una grammatica propria di una certa tradizione (C. Mouffe) ma la grammatica stessa della civiltà in quanto
     
     
     
      
     

L'ora di studiare - sunti di filosofia politica - Seyla Benhabib (dalla rassegna di Federica Giardini)

Ulteriori prospettive: vita comune, sé e giustizia
Seyla Benhabib, Cittadini globali, 2008

Il processo ad Adolf Eichman è preso come esempio del
  • passaggio da norme di giustizia internazionali a norme cosmopolitiche
norme internazionali: sono gli stati i soggetti di diritto
norme cosmopolitiche: sono gli individui i soggetti di diritto

Ecco una casistica degli ambiti in cui si generano le norme cosmopolitiche nel regime internazionale dei diritti umani:
  1. crimini contro l'umanità
  2. interventi umanitari
  3. migrazioni transnazionali
Ma tali norme possono essere realizzate solo da parte delle democrazie nazionali e non da organismi internazionali super partes ovvero, scrive la filosofa: "le democrazie non possono scegliere democraticamente i confini della loro stessa cittadinanza" p. 53 posti ad arbitrio degli Stati democratici.

Tuttavia l'interrelazione tra norme locali e norme cosmopolitiche iterata dalle cittadinanze democratiche al fine di generare nuove norme costituisce di per sé una buona pratica che rinnova le democrazie stesse, le rende più permeabili a nuovi contesti semantici, svela il dinamismo del concetto di popolo, crea un nuovo universo di significati, valori e relazioni sociali.

                                                                    Seyla Benhabib
 


L'ora di studiare - sunti di filosofia politica - Iris Marion Young (dalla rassegna di Federica Giardini)

Ulteriori prospettive: vita comune, sé e giustizia
Iris Marion Young, Politiche della differenza, 1996

All'interno del dibattito tra neoliberali e comunitari sul ritorno della comunità nell'epoca della globalizzazione Young propone una teoria della giustizia che si oppone alle teorie liberali come quella di John Rawls.

La sua tesi centrale è l'estensione della democrazia partecipativa dalla sfera politica a quella economia, sociale e culturale.

Il problema della giustizia non riguarda l'iniqua distribuzione dei bene perché i rimedi ottenuti dall'applicazione di tale paradigma distributivo:
  • da un lato, lasciano immutate e incontestate le gerarchie che decidono quali siano tali beni, quali le norme e regole delle strutture e delle pratiche sociali, quale il linguaggio e i simboli;
  • dall'altro, lasciano nell'invisibilità politica quei gruppi che sono invece il vero oggetto dell'oppressione sociale. ("Se è possibile parlare solo con il linguaggio degli uguali i diversi sono condannati al silenzio").
Coerentemente l'autrice critica quindi:
  •  le politiche assistenzialistiche che riducono i cittadini a consumatori passivi
  • l'ingannevole universalismo di quel ragionamento morale (vessillo del maschio borghese occidentale) che presume di essere basato su un punto di vista impersonale e imparziale, di essere capace di mantenersi equidistante dagli interessi in gioco e di far valere i principi generali. In realtà esso schiaccia la pluralità, la varietà, l'eterogenità, la discorsività delle differenze in un identico monologico (è la logica dell'identità la cui stigmatizzazione procede qui sulle tracce di Adorno, Derrida e Luce Irigaray)
Per rendere visibile le varie facce dell'oppressione e smascherare l'illusione universalista occorre introdurre nell'analisi della comunità politica un altro personaggio (dramatis personae): 
  • il gruppo, rappresentanza corporativa di diritti violati, interessi oppressi, testimonia che il pubblico dei cittadini non è affatto omogeneo
Il gruppo si associa in base ad affinità reciproche che lo differenziano da un altro gruppo per forme culturali e modi di vivere. I suoi membri si riconoscano nel gruppo perché è in esso che formano il loro senso di identità. (C'è qui il rischio che il gruppo assuma i connotati della comunità organica di Toennis e diventi esclusivista e chiuso. Se il senso di sé passa per la formazione che si riceve esso avrà un respiro tanto maggiore, una levatura filosofica, per così dire, quanto più cosmopolitico sarà il suo l'orientamento. Questa circostanza sembra però intrinsecamente esclusa da questa teoria del gruppo)
La rappresentanza per gruppi ha maggior forza nel massimizzare la dimensione partecipativa.


                                                                   Iris Marion Young
 
 
 
 
  

domenica 30 marzo 2014

L'ora di studiare - sunti di filosofia politica - Toennies (dalla rassegna di Federica Giardini)

Un classico, antecedente del dibattito contemporaneo
F. Toennies, Comunità e società 1887

L'autore contrappone la nozione di comunità a quella di società.

Comunità. Sua forma embrionale sono i vincoli familiari. Le unioni sono qui improntate alla comprensione, consenso, intimità, riconoscenza, confidenza, condivisione di linguaggi, significati, abitudini, spazi, ricordi e esperienze comuni. Ad essa ci si sente uniti in modo permanente (il nesso tra la costituzione del senso di sé e la dimensione inter-relazionale può essere riconosciuto in questo passaggio che fa rilevare come l'esperienza della permanenza della relazione con gli altri possa essere vista in analogia con il senso della continuità del proprio sé, con l'esperienza di avere una storia, una biografia per la quale morremo piuttosto che una zoologia che invece ignora quella contingenza) 
e in essa non si ha un certo ruolo (anche se non è vero assumo che sia interessante valutare la possibilità di rapporti interpersonali capaci di prescindere dai ruoli e che potrebbe essere proprio questo il criterio per valutare l'intimità di un rapporto sia con l'altro in quanto essere vivente, sia in quanto oggetto di conoscenza)
ma se ne fa parte con la totalità del proprio essere. Suoi caratteri distintivi tra gli altri: esclusività, durata.
  • qui si entra con la nascita, essa è la sfera privata
  •  diritto familiare
  • il potere è qui usato per educare e insegnare
 Società. E' una relazione razionale, passeggera, pubblica, una costruzione artificiale e convenzionale. Tipico di questo rapporto societario è il rapporto di scambio nel quale i contraenti conteggiano affinché ciò che ricevono sia pari a ciò che danno benché siano poi in competizione per massimizzare i guadagni della contropartita. Nel rapporto di scambio non c'è una relazione tra individui ma tra le loro prestazioni.
  • qui si entra come in una terra straniera, essa è il pubblico (da quest'analisi la nozione di pubblico finisce per essere connotata solo in senso negativo. Essa è invece, per me, la base della persona privata e della civiltà come luogo che consente l'attuazione di questa esistenza personale che frequentemente vediamo inattuata. La nozione di pubblico è ciò grazie a cui la convivenza civile può non essere considerata un evento occasionale e contingente, legato a interessi particolari, ad emergenze straordinarie che ci distruggono la casa. E' piuttosto esso la nostra casa d'origine perché è in esso la nostra struttura in quanto persone. La nostra essenza di persone ci è data dalla di pubblico ma una istituzione a cui è appunto legata la possibilità di intraprendere una vita personale)
  • diritto delle obbligazioni
  • il potere è a vantaggio di chi ce lo ha
Mentre nella comunità gli individui restano uniti nonostante i fattori che li separano nella società restano essenzialmente separati nonostante i fattori che li uniscono. Per T. l'avvento della modernità equivale all'inarrestabile avanzata della società che comporta una perdita dei valori.

Evidenzio qui una debolezza di questa distinzione che ha comunque il merito di descrivere caratteri presenti nelle relazioni umane, sebbene essi non si distribuiscano necessariamente secondo quella linea divisoria qui tracciata. Per quanto riguarda l'identificazione della sfera privata con sentimenti di esclusione che portano a vedere gli estranei alla comunità come degli intrusi penso, similmente a Stefano Petrucciani a conclusione del saggio che vedremo, che solo l'universalismo sia coerente con il riconoscimento della maggiorità filosofica degli individui. Lo stesso può essere detto nel modo di Franca D'Agostini, assumendo cioè che la filosofia sia una ipotesi antropologica proprio perché fonda la polis sull'esercizio della razionalità intesa, a mio giudizio, non come un valore che aiuta a stare insieme in modo giusto ma come l'essenza stessa di quel stare insieme dal quale dipende strutturalmente la possibilità individuale di essere. La nozione di razionalità a cui mi riferisco, tuttavia, non è razionalistica ma più fenomenologica sebbene non del tutto in linea con certi assunti.
 Per tornare alla comunità di T penso insomma che una prospettiva filosofica delle relazioni interpersonali dovrebbe prevedere la tematizzazione dei fattori disgreganti. Considerarli un motivo possibile di organizzazione dei rapporti deve cioè essere un momento distinto da quello di considerarli un motivo efficace in tale organizzazione, non è detto, cioè, che li si debba lasciare agire al punto da costruirci sopra una descrizione della realtà che non è calzante. Altrimenti si acconsente prima ancora di averla osservata alla logica esclusiva di costruzione dell'identità comunitaria accreditando l'idea, ancora tutta da esaminare, che proprio essa sia la sua natura. In più il danno teorico è accresciuto dal fatto che l'altro fronte della sfera privata, cioè la sfera pubblica della società, descritta come preciso equivalente dei rapporti economici di mercato, non ha neanche esso i requisiti per recepire il contrario dell'esclusività, cioè la disposizione ad includere. Questa disposizione, che è connessa intimamente con la suddetta nozione di universalismo, è invece propria della filosofia, più o meno consapevolmente espugnata dalla distinzione di T insieme purtroppo a quella categoria di universalità che regge, insieme col dialogo parlato, quel dialogo tacito su cui si fondano i rapporti e che dovremmo qui cercare di riconoscere nella sua essenza







sabato 29 marzo 2014

Cos'è davvero un'azione?

Cos'è davvero un'azione?
Cosa la distingue dal falso movimento?
Per muoversi bisogna star fermi così come per parlare bisogna star zitti.
Una motricità irrefrenabile così come una parola compulsiva non fanno e non dicono niente.
Ma a star troppo fermi e troppo zitti si diventa matti.
Va bene, parlo per me, iooo divento matta! (anzi quasi-matta e infatti ne soffro). Divento matta quando per troppo tempo non agisco ma sono vissuta dagli eventi, quando succedono cose ma non succedono davvero a me. Magari sono stata travolta eppure in fondo non sono stata toccata. E' stato un sogno, ho continuato a dormire, a istupidire di altro sonno; come se non fosse da millenni che dormo e preferirei approfittare della contingenza di esser nata per svegliarmi un attimo. La fenomenologia li chiama vissuti non egologici.
 http://books.google.it/books?id=uBdSa2GfkdMC&pg=PA85&lpg=PA85&dq=non+egologico+fenomenologia&source=bl&ots=wPEGzWtdXo&sig=fskbEVSvQZC_ZfTu9rRctiwhNC0&hl=it&sa=X&ei=mIs2U8e_BeLOygOhh4GAAg&ved=0CF0Q6AEwBg#v=onepage&q=non%20egologico%20fenomenologia&f=false
Di vissuto in essi per me c'è ben poco.
La vera azione invece si fa sentire perché non si fa mai da soli.
Non che ti costringe all'incontro quanto che è incontro.
Incontrare l'altro, incontrare altro nell'altro.
E quando cominci a percepire la presenza allora pian piano rinunci volentieri a ricostruire l'assenza.


martedì 25 marzo 2014

Privato volto

Privato volto
 
Credevo di aspettarti
ma non avevi la faccia
Te la sei sfilata qualche istante prima dell'incontro?
E chi aspetterò io ora?
Contro quale riva fermerò le mi onde?
Dentro quale terra affonderò il mio umore?
Giochi al massacro
Ti fingi uomo
E infrangi ogni volta di nuovo la mia verità
come un nonnulla
Come fai Tu a non essere mai tu?
Che mostro sei, che crudeltà è questa?
Chiamarci, farci credere di aver sentito
e poi deriderci perché ti avevamo creduto
mentre non siamo che orecchie di sabbia
che il sole scalda ma non lei sente.
A noi cui Tu hai tolto l'uomo
sentire è sfibrare
Svenare
Risuonare con l'essenza degli arbusti
e invidiarne le foglie
perché almeno quelle per un po' stanno attaccate al ramo.
Sapessi almeno se ti nascondi, se mi nascondi
Se è solo questione di tempo
Se tra qualche millennio verrai
Uomo
a dirmi che era vero. Che c'eri anche tu.
In questa cellulosa che piange
fino a polverizzarsi
mentre il vento ne approfitta per giocare ai cicloni.

lunedì 24 marzo 2014

Viktor Basch


SUL RUOLO DELL’IMMAGINAZIONE

NELLA TEORIA KANTIANA DELLA CONOSCENZA
 
traduzione di Giuseppe Grasso, Peppino Ingrassato per gli amici

 

 

Tutti i lettori della Critica del Giudizio conoscono il ruolo capitale che riveste l’immaginazione nell’estetica kantiana. Il giudizio estetico è sostanzialmente caratterizzato dal libero gioco  dell’immaginazione e dell’intelletto e il piacere estetico consiste tutto nella consapevolezza di tale gioco. Ho cercato di definire con precisione, nell’Essai critique sur l’Esthétique de Kant, l’accordo estetico fra l’immaginazione e l’intelletto e di differenziarlo da quello che Kant chiama «rapporto o accordo normale» fra queste due «fonti del conoscere», accordo senza il quale, stando a lui, ogni conoscenza, «ogni esperienza, per quanto volgare», non sarebbe concepibile. Vorrei studiare da vicino, nelle pagine che seguono, questo accordo normale e districare soprattutto l’attività propria che vi svolge l’immaginazione, uno dei due elementi che lo costituiscono.

Nella Deduzione trascendentale della Critica della Ragion pura – lo sappiamo – Kant ha parlato dell’immaginazione come della facoltà che collabora con l’intelletto nell’atto del conoscere. Sappiamo inoltre che Kant, nelle prime due stesure della Critica, ha dato due versioni diverse di tale deduzione il cui valore reciproco è stato variamente apprezzato. Io ritengo, con Schopenhauer e J. E. Erdmann, contrariamente alla maggior parte dei critici, che la prima stesura sia da preferire alla seconda, sia perché è più chiara e completa, sia perché la seconda, specialmente per quanto attiene all’immaginazione, suppone la prima. In quest’ultima, effettivamente, partendo dal fatto che la conoscenza è il risultato di una serie di sintesi che raccolgono, collegano e uniscono i dati della sensibilità, Kant studia, in modo particolareggiato, la tripla sintesi dell’apprensione nell’intuizione, della riproduzione nell’immaginazione e della ricognizione nel concetto. Fatto questo, egli ritorna sui suoi passi ed espone, nella terza sezione della Deduzione, «unificato e collegato»,  quanto aveva esposto separatamente e isolatamente nella seconda sezione. Per farlo segue due vie: quella sintetica e quella analitica. Da un lato parte dal principio di unificazione delle rappresentazioni, l’appercezione pura, e scende, attraverso il gradino intermedio dell’immaginazione trascendentale, all’intuizione empirica, mostrando che questa non è possibile senza quella. Dall’altro lato fa il contrario, «dal basso verso l’alto», parte cioè dall’elemento empirico, enumera le diverse sintesi, – dell’apprensione, della  riproduzione o dell’associazione, della ricognizione o dell’affinità – alle quali deve essere sottoposta quell’intuizione per diventare esperienza, poi si chiede qual è la ragione dell’ultima sintesi, dell’affinità, e arriva così, passando per l’immaginazione produttiva, all’appercezione pura. Nella seconda stesura Kant sopprime del tutto l’esposizione analitica e si mette a sviluppare a lungo l’esposizione sintetica che, nella prima versione, occupa una parte assai ristretta. Così l’immaginazione, sia quella riproduttiva che quella produttiva, appare completamente alla fine della seconda stesura e vi appare come una sorta di Deus ex machina che deve compiere uno dei compiti più delicati della conoscenza: la creazione delle sintesi figurate dell’immaginazione che permettono alle categorie di applicarsi agli oggetti dei sensi in generale. Lo  stesso Kant sembra essersi accorto di tale lacuna ed è forse allo scopo di colmarla che, in un’appendice a quel paragrafo 24 in cui aveva introdotto, senza averci pensato, la «sintesi trascendentale dell’immaginazione», spiega infine, però troppo tardi e troppo succintamente, cos’è l’immaginazione produttiva, qual è la sua sfera e quali sono le sue creazioni in tale sfera.

La nostra esposizione, perché risulti chiara e completa, dovrà quindi tener conto attentamente della prima stesura senza trascurare per questo il capitolo che Kant dedica all’immaginazione nella sua Antropologia.

 

I

 

All’inizio della sua opera conoscitiva Kant aveva proclamato che ogni conoscenza trae origine da due fonti: la capacità di ricevere rappresentazioni – ricettività delle impressioni – o sensibilità, e la facoltà di conoscere un oggetto per mezzo di quelle rappresentazioni – spontaneità dei concetti – o intelletto.[1] Tale spontaneità dell’intelletto consiste fondamentalmente nel fare, della diversità fornitaci dalla sensibilità, una conoscenza, «che la percorre, la raccoglie e la congiunge in qualche modo» e questo atto di percorrere, di raccogliere e di unificare la diversità delle impressioni si chiama sintesi. Ora, la sintesi, in generale, è «il semplice effetto dell’immaginazione, cioè di una funzione dell’anima cieca ma indispensabile, senza la quale non avremmo alcuna conoscenza ma di cui solo raramente abbiamo coscienza. L’atto che consiste nel ricondurre ai concetti questa sintesi è la funzione propria dell’intelletto».[2]

C’è, in queste definizioni preliminari, un’incertezza significativa su cui è necessario insistere. Dopo aver fatto originare tutta la nostra conoscenza dalle due fonti della sensibilità e dell’intelletto, senza menzionare minimamente l’immaginazione, Kant fa consistere la funzione propria dell’intelletto nella sintesi, fa della sintesi, cioè, la funzione dell’immaginazione e accorda all’intelletto il compito di ricondurre quella sintesi dell’immaginazione ai concetti. L’immaginazione, fin dall’inizio di tutta la teoria, ci appare non solo come una terza fonte del conoscere, importante quanto l’intelletto, ma è essa, inoltre, a compiere l’opera propria dell’intelletto – la sintesi – mentre l’intelletto sembra dover rifare in modo cosciente il lavoro compiuto spontaneamente e, per la maggior parte del tempo inconsapevolmente, dall’attività creatrice dell’immaginazione.

È proprio questo – lo vedremo – il vero pensiero di Kant. Prima si accinge a riconoscere, in qualche modo ufficialmente, il ruolo dell’immaginazione come terza fonte della conoscenza. «Ci sono» – scrive nella prima edizione – «tre fonti soggettive della conoscenza, da cui originano la possibilità di ogni esperienza in generale e della conoscenza degli oggetti di tale esperienza: la sensibilità, l’immaginazione e l’appercezione».[3] Poi studia la parte che ha l’immaginazione nell’opera sintetica della conoscenza. Questa parte – avremo modo di vederlo – è della massima importanza. Per determinarla nella sua estensione, per seguire l’immaginazione in tutte le sue incarnazioni, si devono distinguere due grandi funzioni: quella riproduttiva e quella produttiva.

Vediamo la funzione riproduttiva. Innanzitutto l’immaginazione è la facoltà propria della riproduzione e dell’associazione (Beigesellung): ha il potere di rievocare, in loro assenza, oggetti percepiti precedentemente, di risuscitare in noi il mondo delle intuizioni, indebolite certo, e scolorite, ma così malleabili, così duttili, così plastiche che non siamo tenuti a riprodurle servilmente nella struttura primitiva del loro coesistere o nell’ordine originario del loro succedersi, e che possiamo combinare a nostro piacimento, associandole e dissociandole, secondo le leggi imposte dal mondo esterno e che estraiamo dalla parte più profonda del nostro essere, sia che sia teso gioiosamente o tristemente, che si muova in questa o in quest’atra sfera intellettuale, che sia sotto l’influenza di tale o tal’altro eccitante. L’immaginazione riproduttiva comprende la memoria che ci dà, delle nostre percezioni passate, immagini affievolite ma precise, l’associazione che riproduce, secondo una regola costante, le rappresentazioni che si sono spesso inseguite, ed infine l’immaginazione in senso stretto, chiamata da Kant fantasia, che si svolge senza intralci nei sogni e che, sottoposta alla regola dell’intelletto, crea l’arte.[4]

L’attività sintetica dell’immaginazione non si ferma comunque qui. Le rappresentazioni stesse, le percezioni primitive che l’immaginazione ha il compito specifico di rievocare in loro assenza e di combinare, non sarebbero possibili senza di quella. Kant parte dal fatto che la sensibilità ci fornisce solo intuizioni isolate e separate mentre, nella nostra coscienza, esse appaiono sempre unite e collegate. Occorre dunque che ai sensi, alla synopsis, si associ un principio di unificazione:  conoscere – lo sappiamo – è fondamentalmente l’atto di unificare, di collegare, che Kant chiama, nelle lettere a J. S. Beck, Zusammensetzen.[5] Tale principio di unificazione si manifesta con tre sintesi: la sintesi dell’apprensione nell’intuizione, la sintesi della riproduzione nell’immaginazione e la sintesi della ricognizione nel concetto.

Da un lato ogni percezione racchiude una diversità, è composta da vari elementi, cioè a, b, c, d. Per fare di tale molteplicità una percezione unica bisogna poterne riunire gli elementi, percorrerne tutta la serie, cioè a + b + c + d, ed è questo che fa la sintesi dell’apprensione che, come ogni sintesi, è una funzione dell’immaginazione. Inoltre, perché questa sintesi possa aver luogo, perché noi possiamo ricondurre a unità gli elementi molteplici e separati della percezione, cioè a + b + c + d, è necessario, quando ci troviamo in d, che abbiamo il potere di rappresentare a + b + c: è la sintesi della riproduzione nell’immaginazione. L’immaginazione – lo si intuisce – non serve solo a rappresentare gli oggetti in loro assenza, ad associare ad essi altre rappresentazioni che spesso li seguono o li accompagnano e a realizzare un legame tale che, anche in assenza dell’oggetto, una di quelle rappresentazioni consenta alla mente di passare dall’una all’altra in base a una regola costante. Essa è, in realtà, «un ingrediente necessario della percezione stessa».

E non è tutto. Ciò che è vero per una percezione lo è ancor più per quell’insieme di percezioni che chiamiamo oggetto. La sensibilità, in effetti, di cui Kant dice spesso che ci «fornisce oggetti», è totalmente inadeguata a ricoprire quel ruolo. Ci fornisce solo elementi di certi oggetti e non gli oggetti stessi. È l’immaginazione che, in virtù di una necessità interna, combina impressioni  relative al colore, al tatto e alle dimensioni in una visione d’insieme che è quell’oggetto particolare, quell’albero, quella casa, quell’uomo. Poi interviene l’intelletto a prendere coscienza della sintesi inconsapevole a cui l’immaginazione ha sottoposto i vari elementi dell’oggetto e a rendersi conto che la combinazione realizzata dall’immaginazione, sugli elementi dell’intuizione, è non arbitraria ma necessaria e può essere riprodotta: «… così noi concepiamo un triangolo come un oggetto mentre abbiamo coscienza dell’unione di tre linee rette che seguono una regola in base alla quale una certa intuizione può essere riprodotta».[6]

Infine, ciò che vale per i particolari concetti di quell’albero, di quella casa e di quell’uomo vale anche, ovviamente, per i concetti generali della casa, dell’albero, dell’uomo. Di tutte le immagini dei vari alberi che abbiamo scorto si è formata in noi un’immagine generale nella quale le differenze particolari si sono cancellate e di cui l’immaginazione conserva solo i tratti specifici. Quell’immagine generale esiste solo nella parola (e grazie alla parola) che è come un centro di associazioni intorno al quale gravitano tutte le immagini che sono servite nel formare il concetto al quale ognuno di noi associa più precisamente quell’immagine che gli è più familiare. Anche qui l’intelletto si limita a rifare coscientemente l’opera spontanea e inconsapevole dell’immaginazione, non fa altro che rendersi conto che l’associazione generalizzante è stata realizzata in base a una regola necessaria e che può, di conseguenza, essere riprodotta.

Se l’intelletto prende coscienza del modo in cui si formano quelle immagini, del procedimento generale, del metodo seguito dall’immaginazione per crearle, l’immagine generale diventa uno schema. Solo che questi schemi non appartengono più all’immaginazione riproduttiva ma a una forma dell’immaginazione cui abbiamo riservato lo studio. Concludiamo dicendo che, da un capo all’altro della sintesi che elabora la conoscenza, dalla percezione più umile al concetto generale più inclusivo, l’immaginazione riproduttiva è come un filo che serve a collegare, è come un cimento necessario ad agglomerare quegli elementi che, senza di essa, resterebbero sparsi e separati e non potrebbero costituire una conoscenza.

 

II

 

Abbiamo detto prima che, perché la conoscenza sia possibile, è necessario che la mente sottoponga gli elementi che le sono forniti dalla sensibilità alla tripla sintesi dell’apprensione nell’intuizione, della riproduzione nell’immaginazione e della ricognizione nel concetto. È quest’ultima che dobbiamo affrontare adesso perché, senza di essa, le prime due sarebbero vane. In effetti, perché possa esserci conoscenza, occorre, in primo luogo, che tutti gli elementi riuniti nell’immagine siano da noi riconosciuti come identici e, in secondo luogo, che tale collegamento non formi un ammasso incoerente ma un concatenarsi determinato, un concatenarsi necessario, ovvero che ci sia una regola della riproduzione e della coordinazione delle rappresentazioni della riproduzione, regola che Kant chiama affinità delle rappresentazioni. Ciò che rende possibile la sintesi della ricognizione nel concetto e nell’affinità delle rappresentazioni è la coscienza pura, l’appercezione trascendentale. È la consapevolezza che attraverso tutti i cambiamenti subiti il nostro Io rimane uguale – ovvero la certezza che tutte le coscienze empiriche sono collegate in una sola autocoscienza – a spiegare la ricognizione nel concetto, a fornire all’immaginazione la regola in base alla quale produce le immagini. Si tratta ora di chiedersi se la coscienza pura, se l’appercezione trascendentale, il principio supremo del nostro pensiero in generale non richieda anch’essa un intervento dell’immaginazione.

Per discutere di tale questione dobbiamo uscire dalla sfera dell’immaginazione riproduttiva ed entrare in quella, infinitamente più elevata, dell’immaginazione produttiva. Finora ci siamo occupati di sintesi empiriche dell’immaginazione. L’immaginazione doveva elaborare e collegare in immagini d’insieme le intuizioni disseminate nello spazio e nel tempo. La materia su cui lavorava era data empiricamente. Le regole in base alle quali realizzava, è vero, quelle sintesi erano necessariamente fondate anche sulle sintesi empiriche, sull’attività sintetica originaria della mente, erano cioè categorie. Il nostro mondo intuitivo, in realtà, è già ordinato e organizzato in base alle categorie. Quando, riflettendo sul mondo delle intuizioni, riconosciamo la sua regolarità, non facciamo altro che prendere coscienza delle leggi secondo le quali abbiamo noi stessi costruito, inconsapevolmente, quel mondo intuitivo. Ritroviamo in quel mondo le categorie e possiamo fondare, grazie ad esse, la scienza della natura, perché ve le abbiamo messe prima noi stessi.[7] Perciò le leggi e le regole in base alle quali l’immaginazione riproduttiva elabora la materia bruta che le viene fornita dalla realtà esterna sono a priori, superiori e anteriori all’esperienza.

Adesso, però, bisogna fare un passo in avanti. Nella sfera dell’immaginazione produttiva non sono solo le regole con cui essa mette in atto le sintesi date a priori, è la materia stessa su cui opera a essere data a priori, indipendentemente da ogni esperienza. A ciascuna delle tre sintesi empiriche esaminate prima corrisponde una sintesi a priori. Innanzitutto alla sintesi dell’apprensione empirica si rifà una sintesi dell’apprensione a priori: «Questa sintesi dell’apprensione deve anche essere praticata a priori, cioè rispetto alle rappresentazioni non empiriche. Senza di essa, infatti, non potremmo avere a priori né le rappresentazioni dello spazio né quelle del tempo, che sono dovute solo alla sintesi degli elementi eterogenei forniti dalla sensibilità nella sua ricettività originaria».[8] Parallelamente, alla sintesi della riproduzione empirica corrisponde una sintesi della riproduzione trascendentale, pura, a priori. «Se allora possiamo provare che anche le nostre rappresentazioni a priori più pure non ci procurano nessuna conoscenza, a meno che non contengano una unificazione di elementi eterogenei che rende possibile una sintesi completa della riproduzione, ne consegue che questa sintesi dell’immaginazione è fondata, persino prima di ogni esperienza, su principi a priori: perciò è necessario ammetterne una sintesi trascendentale pura che serva essa stessa da fondamento alla possibilità di ogni esperienza, in quanto quest’ultima suppone necessariamente la riproducibilità dei fenomeni».[9] Ci sono nello spazio e nel tempo, prima di ogni esperienza, una serie di forme e di rapporti possibili e quasi latenti: è necessario, se vogliamo rappresentare quelle forme e quelle figure, costruirle, collegarne gli elementi, disegnare la linea, tracciare il triangolo, e via di seguito. Quelle forme stesse possono essere combinate con altre, e Kant pare concepire, indipendentemente e prima della geometria derivante dall’astrazione e dalla generalizzazione delle forme percepite nella realtà, «una specie di geometria interiore in cui l’Io costruisce liberamente, in base alle regole immanenti della coscienza pura, un mondo di figure».[10]  Il mondo dello spazio e del tempo non ci è dato ma è costruito da noi in base a regole a priori. Quando diamo forma alle immagini intuitive esterne la cui materia è dovuta alla sensazione noi costruiamo insieme lo spazio e il tempo come intuizioni a priori. La materia disorganizzata che ci fornisce la sensibilità produce una sorta di choc che incita l’immaginazione ad operare le sue sintesi. Queste sintesi sono empiriche e riproduttive in quanto provocate immediatamente dallo choc esterno. Noi sappiamo però che anche l’attività empirica e riproduttiva dell’immaginazione non è possibile se non è accompagnata dall’attività a priori e produttiva di questa facoltà. La riflessione ci insegna a isolare queste due manifestazioni dell’immaginazione e a capire che l’immaginazione produttiva è la condizione indispensabile per l’immaginazione riproduttiva. Questa immaginazione produttiva crea degli abbozzi, degli schizzi, degli schemi – volendo usare il termine giusto, sebbene lo stesso Kant se ne sia servito solo per le sintesi del tempo – grazie ai quali l’immaginazione empirica è guidata nella costruzione delle immagini sensibili.

Detto questo, torniamo alla questione dell’appercezione trascendentale per chiederci se esige l’intervento dell’immaginazione. L’appercezione trascendentale, la coscienza dell’identità totale di noi stessi in rapporto a tutte le rappresentazioni di cui possiamo avere conoscenza, come di una condizione necessaria di ogni rappresentazione, qualunque essa sia, è il principio trascendentale dell’unità a cui il nostro pensiero riconduce gli elementi eterogenei delle nostre rappresentazioni. Tale unità è sintetica, come ogni unità. Lo abbiamo detto e lo ripetiamo con Kant: «… non possiamo percepire l’unità sintetica – die Zusammensetzung – in quanto data ma è necessario che la creiamo noi stessi. Per rappresentarci qualcosa di unitario, è necessario che operiamo l’unificazione: wir müssen zusammensetzen, wenn wir etwas als zusammengesetz vorstellen sollen».[11] L’appercezione trascendentale «suppone quindi o racchiude sempre una sintesi»[12] e questa sintesi, ovviamente, è l’immaginazione trascendentale, l’immaginazione produttiva che la crea. Resta il problema di sapere in che cosa essa consiste.

Il problema è sicuramente il più spinoso di tutta la teoria kantiana della conoscenza. Anche quei critici, come Hölder, che si sono addentrati più profondamente nel pensiero di Kant, non sembrano averlo risolto pienamente. Del resto lo stesso Kant, volendo spiegare a J. S. Beck la suprema attività sintetica dell’intelletto, ammette che non ci si raccapezza più nemmeno lui e teme che il suo interprete non riesca a mettere in luce i fili tanto sottili il cui intreccio costituisce la nostra facoltà di conoscere.[13] Un’ammissione fatta per renderci prudenti e modesti.

L’appercezione trascendentale è – abbiamo detto – la coscienza dell’identità totale di noi stessi. Come è possibile tale identità? Innanzitutto, perché essa si realizzi, è necessario che tutte le rappresentazioni abbiano un rapporto necessario con una possibile coscienza empirica, dal momento che, senza quella coscienza, non esisterebbero per noi. Inoltre, perché ci sia identità dell’Io, è necessario che le nostre varie coscienze empiriche siano esse stesse collegate in una sola autocoscienza ed è in tale atto di unificazione delle nostre coscienze empiriche in una sola e identica coscienza che consiste la sintesi trascendentale dell’immaginazione. «L’unità trascendentale dell’appercezione si riferisce dunque alla sintesi pura dell’immaginazione come a una condizione a priori della possibilità di ogni collegamento di elementi disparati in una conoscenza unificatrice… Il principio dell’unità necessario della sintesi pura (produttiva) dell’immaginazione è dunque, prima dell’appercezione, il fondamento della possibilità di ogni conoscenza, in particolar modo dell’esperienza…. L’unità trascendentale della sintesi dell’immaginazione è la forma pura di ogni conoscenza possibile ed è perciò la condizione della rappresentazione a priori di tutti gli oggetti possibili di esperienza».[14]

Senza l’immaginazione produttiva – lo si capisce – l’appercezione trascendentale stessa non sarebbe concepibile. Nel supremo atto sintetico del pensiero, così come nelle sue attività inferiori, l’immaginazione guida l’intelletto, il quale è, come dice Kant, «l’unità dell’appercezione in rapporto alla sintesi dell’immaginazione».[15]

Tuttavia il ruolo dell’immaginazione produttiva, condizione indispensabile per l’appercezione trascendentale, non è ancora spiegato sufficientemente. Tale ruolo, se osserviamo con attenzione, è  duplice: l’immaginazione produttiva non è solo la guida ma è anche l’interprete, il tramite dell’intelletto. Davanti a noi si estende il mondo esterno, con il suo turbinio di immagini sparse e inorganiche che vengono da ogni parte ad assalire i sensi. In tale ammasso incoerente l’immaginazione riproduttiva mette ordine: crea la percezione, sintesi di impressioni, l’immagine, sintesi di percezioni e il concetto, sintesi di immagini. Poi interviene l’intelletto empirico che riproduce consapevolmente il lavoro spontaneo e inconsapevole dell’immaginazione e sa che queste sintesi possono essere riprodotte: il concetto di un oggetto nasce quando abbiamo una chiara coscienza della sintesi dei suoi elementi basata sulla regola per cui una tale sintesi può essere riprodotta. Alla fine interviene l’intelletto puro che consiste esclusivamente nell’io fisso e permanente dell’appercezione pura, con le sue leggi e le sue regole: le categorie. La difficoltà sta nel capire in che modo i due mondi che abbiamo distinto, quello empirico o dell’immaginazione riproduttiva e quello dell’intelletto puro si accordano e coincidono. Non mi si venga a obiettare che è questo il problema generale posto e risolto dalla deduzione trascendentale dicendo che il mondo empirico è possibile solo grazie all’intelletto puro, all’appercezione trascendentale e che, perciò, deve essere conforme alle sue leggi, alle categorie. La deduzione trascendentale dimostra sì che il mondo empirico deve essere conforme al mondo dell’intelletto puro ma non dimostra come gli sia conforme, come l’io fisso e permanente dell’appercezione possa applicarsi alle sintesi sensibili dell’immaginazione riproduttiva. Le sintesi dell’immaginazione riproduttiva sono empiriche e sensibili mentre l’appercezione trascendentale è pura, a priori, rigorosamente intellettuale. In che modo questi due mondi così diversi possono accordarsi?  

Per realizzare un simile accordo ci vuole ovviamente un terzo mondo che ci permetta di passare dalla sfera dell’esperienza sensibile a quella dell’intelletto puro. Questo terzo mondo, in realtà, noi lo conosciamo ed è il mondo delle forme e delle figure che l’immaginazione produttiva costruisce liberamente nello spazio e nel tempo. Ogni costruzione è sintesi e l’unità che presiede a questa sintesi è l’unità della sintesi trascendentale dell’immaginazione pura. Tali sintesi, adesso, non sono prodotte a caso ma secondo certe leggi e certe regole. Tutto il lavoro dell’immaginazione pura è originariamente libero, spontaneo e, in gran parte se non per intero, inconsapevole. Arriva però il momento in cui il pensiero prende coscienza di questo lavoro, in cui rifà il cammino dell’immaginazione e allora l’unità della sintesi trascendentale dell’immaginazione diventa l’unità dell’appercezione trascendentale, e quelle leggi e quelle regole in base alle quali l’unità è stata realizzata sono riconosciute come categorie.

L’immaginazione produttiva è dunque l’intermediario che cercavamo. «C’è dunque in noi un’immaginazione pura come facoltà fondamentale dell’anima umana, che serve a priori da principio a ogni conoscenza. Per mezzo di questa facoltà, da una parte, colleghiamo i vari elementi dell’intuizione e, dall’altra, li riconduciamo alla condizione dell’unità necessaria dell’appercezione pura. I due termini estremi, la sensibilità e l’intelletto, devono necessariamente accordarsi per mezzo di questa funzione trascendentale dell’immaginazione».[16] L’io fisso e permanente dell’appercezione trascendentale, a priori e puramente intellettuale, non può mai uscire da sé e applicarsi, senza intermediario, al mondo dell’esperienza. È allora che intervengono le sintesi dell’immaginazione produttiva: da un lato sono sensibili come le sintesi prodotte dall’immaginazione con i dati del mondo sensibile, dall’altro sono pure e a priori come l’appercezione trascendentale. Così esse consentono bene il passaggio da un mondo all’altro. 

Se adesso vogliamo raffigurarci nel suo d’insieme l’atto conoscitivo, secondo Kant, ecco in cosa ci sembra consistere. Il mondo esterno, messo in contatto con un essere senziente, produce una sorta di choc che è la condizione prima di ogni conoscenza. Con questo choc entrano in noi, attraverso il canale dei sensi, impressioni di ogni ordine: impressioni relative al colore, al suono, al tatto, al gusto e all’olfatto. Tali impressioni isolate e sparse vengono riunite, raggruppate e organizzate dall’immaginazione che ne fa delle percezioni e delle immagini. Però tale riunione, tale raggruppamento e tale organizzazione sarebbero vani se non fossero accompagnati da un lavoro di sintesi ulteriore e di grado superiore. Gli elementi che l’immaginazione riproduttiva organizza li proiettiamo necessariamente nello spazio e nel tempo, cioè li collochiamo in successioni di elementi coesistenti e successive. Nello spazio e nel tempo, però, si trovano già, belle e pronte, le sintesi e le forme che l’immaginazione vi ha disegnato in base alle categorie. È sulla base di queste forme che noi costruiamo adesso, in modo definitivo, il mondo esterno, è sulla base delle regole dell’unità dell’immaginazione produttiva e delle categorie che plasmiamo la natura quale la concepisce il pensiero scientifico.

 

III

 

Possiamo misurare adesso il ruolo immenso che riveste l’immaginazione nella teoria kantiana della conoscenza. È la pioniera, la guida dell’intelletto empirico, è la guida e l’interprete dell’intelletto puro. L’intelletto non fa che seguire le sue ispirazioni, rifà il cammino che l’incomparabile artista della conoscenza si apre liberamente e spontaneamente. Ognuno di questi passi costituisce un progresso sostanziale nell’opera sintetica del conoscere: solo dopo avergli aperto il cammino, l’intelletto osa impegnarvisi stabilmente. O meglio, per dirlo fuor di metafora, Kant distingue due tipi di immaginazione: quella riproduttiva e quella produttiva a cui fa corrispondere due forme di intelletto: quello empirico e quello puro. L’intelletto empirico prende coscienza della sintesi riproduttiva dell’immaginazione, riconosce nella natura le leggi che le costruzioni inconsapevoli dell’immaginazione vi hanno messo. L’intelletto puro prende coscienza della sintesi trascendentale dell’immaginazione e delle regole immanenti in base alle quali questa è stata realizzata e creata, sia per designare l’essenza delle forme e delle figure liberamente prodotte dall’immaginazione, sia per designare quelle regole, un sistema di concetti puri: le categorie. L’immaginazione, dunque, non è altro che l’intelletto inconsapevole e l’intelletto non è altro che l’immaginazione divenuta cosciente di se stessa. In quanto l’Io non è sottoposto alle impressioni del mondo esterno ma agisce spontaneamente è intelletto. Quando produce inconsapevolmente alcune immagini d’insieme si chiama immaginazione. Quando produce consapevolmente concetti si chiama intelletto nel senso proprio del termine. Quando la spontaneità dell’io – inconsapevole o cosciente, immaginativa o intellettiva – è esercitata sulla materia che le fornisce la ricettività l’intelletto è empirico. Quando, indipendentemente dalla ricettività e dalle sue impressioni, non fa che rappresentare le proprie leggi – intuitivamente con gli schemi o concettualmente con le categorie – è puro e a priori.[17]

L’accordo «normale» dell’intelletto e dell’immaginazione risulta necessariamente dalla teoria della conoscenza di Kant così come l’abbiamo esposta. Poiché l’immaginazione e l’intelletto sono due manifestazioni sempre parallele della spontaneità dell’Io, sarebbe assurdo se non si accordassero. La teoria dello schematismo non è altro che tale accordo applicato alle categorie. In tutti i gradi dell’attività dell’Io corrispondono – lo abbiamo visto – alle sintesi dei concetti (synthesis intellectualis) sintesi dell’immaginazione (synthesis speciosa), e sono sempre le sintesi figurate che precedono le sintesi intellettuali. In ambito empirico, al concetto particolare derivante dal paragone degli individui e dall’astrazione delle qualità identiche di quegli individui, designati dal nome, corrisponde non un’immagine ma uno schema, ossia un prodotto della facoltà empirica dell’immaginazione riproduttiva. Questo schema, questa specie di immagine generale nella quale, senza l’intervento consapevole del nostro intelletto, sono venute a fondersi tutte le differenze individuali, precede il concetto che nasce solo quando prendiamo coscienza della regola in base alla quale la nostra immaginazione può rappresentarsi, in modo generale, la figura di un essere o di un oggetto senza doversi assoggettare a qualche forma particolare che ci offre l’esperienza, o anche a qualche possibile immagine che possiamo mostrare in concreto.[18]

Ciò che è vero per i concetti empirici lo è anche per i concetti dell’intelletto puro, per le categorie. Abbiamo mostrato come, senza l’intervento dell’immaginazione produttiva, l’appercezione trascendentale e le sue leggi, le categorie, sintesi puramente a priori e intellettuali, non potrebbero mai applicarsi agli oggetti dell’esperienza, sintesi empiriche e sensibili. Abbiamo visto che questa immaginazione produttiva crea delle sintesi figurate che corrispondono alle sintesi intellettuali dell’intelletto puro propriamente detto, cioè dell’appercezione trascendentale e delle sue leggi, le categorie, sintesi figurate che servono da intermediarie tra l’esperienza da una parte e dell’appercezione e delle sue leggi dall’altra. Queste sintesi figurate sono gli schemi dei concetti puri dell’intelletto, delle categorie, nello stesso modo in cui le immagini generali sono gli schemi dei concetti sensibili.

Ciò che ha ostacolato la comprensione della teoria dello schematismo è che Kant, da una parte, ha trattato gli schemi in una speciale sezione, l’Analitica dei Principi, senza indicare l’identità degli schemi e delle sintesi figurate della Deduzione trascendentale, e, dall’altra, ha scelto, quale strumento della sussunzione dei fenomeni sotto le categorie, solo il tempo, senza occuparsi dello spazio. Tuttavia noi sappiamo bene che ci sono anche gli schemi dello spazio: quel mondo di figure e di rapporti che l’immaginazione produttiva costruisce liberamente in base alle sue leggi immanenti. Se Kant, per incarnare gli schemi in generale, ha scelto il tempo anziché lo spazio, è perché il tempo include lo spazio. Lo spazio, infatti, come forma pura di ogni intuizione esterna, serve come condizione a priori solo ai fenomeni esterni, mentre, «siccome tutte le rappresentazioni, che abbiano o meno come oggetti cose esterne, appartengono, sempre per se stesse, in quanto determinazioni della mente, a uno stato interiore, e siccome tale stato interiore, sempre sottoposto alla condizione formale dell’intuizione interna, rientra pertanto nel tempo, il tempo è la condizione a priori di ogni fenomeno in generale, la condizione immediata dei fenomeni interiori della nostra anima e, per ciò stesso, la condizione mediata di tutti i fenomeni esterni».[19] È pur sempre vero che, accanto agli schemi del tempo, più consoni, per la loro generalità, a dirigere l’applicazione delle categorie – che sono le leggi più generali del pensiero – al mondo dell’esperienza, ci siano gli schemi dello spazio, e che il tempo stesso, inoltre, possa essere rappresentato solo sotto forma di spazio. «Noi non possiamo nemmeno rappresentarci il tempo», dice Kant, «senza tracciare una linea retta (che è la rappresentazione esteriore e figurata del tempo)»,[20] di modo che se il tempo, come forma generale delle intuizioni sia interne che esterne, fornisce gli schemi delle categorie, è possibile dire, invece, che lo spazio, in quanto origine stessa di tutte le figure, è la rappresentazione figurata, cioè lo schema del tempo.

Lo schematismo, dunque, è una manifestazione particolare dell’accordo generale dell’immaginazione e  dell’intelletto quale si evince da un attento studio della Deduzione trascendentale. Gli schemi sono la creazione più alta di quell’immaginazione che, nella sua duplice funzione riproduttiva e produttiva, è la guida e l’interprete sia dell’intelletto empirico che dell’intelletto puro. In fondo – ed è questa la conclusione finale del nostro lavoro – l’immaginazione non è altro che il doppio, il Menecmo dell’intelletto. Quando la spontaneità sintetica dell’Io è inconsapevole abbiamo l’immaginazione, quando invece è consapevole abbiamo l’intelletto.

 

SUL POTERE ESPRESSIVO DELLA MUSICA

 

Tutti gli individui che abbiano deciso di studiare un musicista devono esserci cimentati, fin da subito, con una preliminare difficoltà, con l’impossibilità, cioè, di restituire a parole una pagina di musica. Come tradurre – si saranno chiesti – con segni scoloriti, sfioriti e desensibilizzati, ognuno con un senso rigorosamente definito e rivolto non a individui ma a province dell’essere; come tradurre – con tale strumento grossolano – melodie, armonie e timbri? È possibile analizzare tecnicamente un’opera, scoprire il motivo che ne costituisce la genesi e mostrare in che modo quella genesi si è sviluppata, con quali toni il tema si è presentato inizialmente alla mente del musicista, con che modulazioni egli lo ha trasmesso, quali motivi secondari vi ha associato prima di passare a un altro motivo. Queste analisi, certo, sono utili e anche necessarie. Ma sono sufficienti? Ogni musica si rivolge non solo agli specialisti, esperti nella grammatica e nella sintassi del particolare linguaggio di cui fa uso, ma a un pubblico che ignora, per la maggior parte, ogni cosa della tecnica musicale. E tuttavia quel pubblico affolla i concerti, ascolta attentamente opere lunghe e difficili la cui profonda comprensione richiede, alla prima audizione, uno sforzo notevole anche per i professionisti. E non li ascolta solo in modo superficiale, tanto è vero che numerosi uditori li seguono con passione, li vivono con tutto ciò che c’è in essi di forza emotiva. Sottoscrivo appieno – avremo modo di vederlo – la penetrante formula di Eugène Delacroix: «Ciò che pone la musica al di sopra delle altre arti è il fatto di essere completamente di convenzione; eppure è un linguaggio completo, basta entrare nella sua sfera» (Journal, 20 gennaio 1865). Resta il fatto che anche quelli che non lo parlano capiscono – o credono di capire – quel «linguaggio completo». Per questo è necessario che la musica, pur essendo principalmente ascoltata dagli iniziati, possa essere compresa con mezzi particolari e giungere, al di là della comprensione, all’anima dei non iniziati. Quali sono questi mezzi? La musica esprime qualcosa al di fuori del «Bello musicale» propriamente detto? Cos’è questo qualcosa e, se esiste, si può tradurre in parole? È quanto mi sono chiesto cercando di interpretare la musica di Schumann ed è quanto vorrei esporre brevemente ai lettori.

 

* * *

 

La musica è il linguaggio stesso del sentimento: così è stato detto dalla maggior parte dei vecchi estetologi musicali e da tutti gli appassionati di musica. Se le arti plastiche – scultura e pittura – fanno appello, in quanto raffigurazioni e non imitazioni della natura, alla nostra mente che ricostruisce, paragona e identifica, al di là del piacere sensuale che viene dal gioco delle forme, dei colori e delle luci; se la poesia – persino la poesia lirica, anch’essa evocante esseri e accadimenti che le sono stati forniti dalla realtà presente o passata – sollecita l’immaginazione, l’intelletto e la ragione dell’uditore o del lettore, ci sono invece due arti che non hanno modelli al di fuori di noi e le cui creazioni, per essere capite, non sembrano aver bisogno del concorso delle nostre energie strettamente intellettuali: l’architettura e la musica. Lascio fuori dalla mia ricerca l’architettura e prendo in esame solo la musica. Se la musica – come qualcuno ha detto – non rappresenta nulla di quanto sta al di fuori di noi, essa esprime ciò che è in noi, ciò che siamo noi: la nostra vera e profonda vita di cui la mente e la volontà sono solo i tramiti infedeli, le nostre gioie e i nostri dolori, il benessere e il malessere, gli slanci e le distensioni, le tempeste e le bonacce, tutto ciò che freme, rabbrividisce e palpita in noi, tutte le nostre inclinazioni e le nostre  passioni: l’amore, l’odio, il terrore e la pietà. Un simile modo di esprimersi è diretto, spontaneo, immediato, irresistibile, capito universalmente. Come ha scritto Richard Wagner in L’Œuvre d’art de l’Avenir: «L’organo del cuore è il suono e il suo linguaggio artistico cosciente è la musica» [«Das Organ des Herzens ist der Ton, seine künstlerish bewusste Sprache, die Tonkunkst»]

Ebbene, a partire dal celebre libro di Hanslick, Von Musicalish-Scönen (Del Bello musicale), del 1854, è impossibile attenersi alla concezione della musica intesa come «espressione dei sentimenti». Il musicologo austriaco ha mostrato con una logica impietosa, contrariamente a quanto si era creduto per molto tempo, che la musica – sia quella vocale che quella strumentale – è assolutamente incapace di esprimere direttamente un contenuto sentimentale, qualunque esso possa essere. Non solo non esiste espressione diretta di una passione come l’amore, che implica sempre determinate rappresentazioni, – l’immagine dell’amata, degli ostacoli che la separano dall’amante, delle gioie o delle delusioni che l’attendono – ma anche di quei sentimenti elementari le cui oscillazioni rappresentano il sottofondo della nostra vita psichica: gioia e dolore, benessere e malessere. Ricordatevi delle cantilene più appassionate – «Laisse-moi, laisse-moi contempler ton visage»,[21] la Frühlingsnacht di Schumann, l’Erotik e il Je t’aime di Grieg – e chiedetevi, tralasciando le parole o il titolo, se esiste davvero qualcosa in comune tra la frase che canta nella vostra memoria e l’invincibile istinto che da sempre fa affrontare i sessi in una lotta tanto disperata e dolce  insieme. Rievocate le marce funebri di Beethoven e di Chopin, il tragico In der Nacht di Schumann,  in cui le forze scatenate della natura e le energie ribelli di un’anima umana sembrano gridare l’angoscia insondabile, oppure, dal lato opposto, quella pagina luminosa di Mozart dove esseri eterei sembrano planare fra le allegrie e le beatitudini; poi studiate il rapporto tra i suoni e il contenuto che date loro. Vi accorgerete che quel rapporto non esiste o che, quanto meno, non è diretto. La musica, a dispetto di quanto hanno scritto molti pensatori e di quanto sentono o credono di sentire molti amatori, esprime direttamente solo se stessa, solo il Bello che le è proprio, un contenuto che non è mutuato da nessun’altra sfera se non dall’essere altro che è la sfera dei suoni. Le affinità elettive di questi suoni, i loro antagonismi, i loro connubi e divorzi, le loro battaglie e riconciliazioni, le loro ascese e cadute, le loro fughe travolgenti e le loro soste, le luci che le illuminano e le tenebre che le avvolgono a seconda che passino da una tonalità all’altra, da uno strumento all’altro: questo è quanto esprime direttamente la musica. Pretendere di far penetrare la nostra umanità pesante e brutale in quella sfera aerea, in cui tutti gli elementi sono leggiadri, diafani e impalpabili, significa profanarne la purezza.

Le prove fornite da Hanslick e da altri sono innumerevoli e perentorie. Taluni passaggi maestosi del Messia, dove sembra respirare la pietà più accesa, sono stati mutuati da Händel a due duetti erotici composti su madrigali di Mauro Ortensio. Certe musiche eseguite nelle chiese italiane, dove i fedeli sentono incarnati i loro slanci verso l’Altissimo, sono arie d’opera, banalmente temporali, di Rossini, Bellini, Donizetti e Verdi. A un’aria alata di Mozart – come l’allegro fugato dell’ouverture del Flauto magico – uno spiritoso ha adattato così bene un quartetto vocale di  rigattieri coinvolti in un litigio aspro e chiassoso che sembra davvero non aver avuto altra destinazione.

Io stesso, in due occasioni, nelle mie conferenze pratiche della Sorbona, nel 1919 e nel 1921, ho  fatto alcune esperienze sul potere espressivo della musica, la prima volta con 76 studenti e studentesse, la seconda con 67. Il procedimento è stato semplice: ho suonato o fatto suonare un  brano musicale e ho chiesto ai miei ragazzi di raccontare, per quanto possibile fedelmente, quello che provavano. Gli studenti che conoscevano il brano dovevano chiaramente dirlo. I risultati  ottenuti, sebbene scontati in anticipo, mi hanno sbalordito. Ne do alcuni esempi:

Die Freude ist in Gott, di Bach: «Una danza triste e misurata, come un minuetto ballato da persone dagli occhi vaghi, in un parco alla francese». – «Danza del Settecento che evoca Versailles all’epoca della Pompadour». - «Strazi mortali. Si avverte una preoccupazione triste, sempre la stessa, che ritorna instancabilmente. Del resto, nessun grande sforzo per sfuggirvi».

La Preghiera di Elisabetta, dal Tannhäser: «Danza elegiaca di un paese nordico, forse scandinavo, o canto d’amore». – «Serenità. Felicità. Primavera. Giovinezza». – «Brano ignoto di autore forse tedesco. Canto eroico. Sentimenti solidi e semplici».

Pauvre orphelin, di Schumann: «Autore ignoto della Scuola italiana, melodrammatico e sentimentale. L’amore sfortunato che si tramuta in disperazione». – «Gioia calma, profonda, serena».  – «Tranquillità d’animo di una vita semplice». – «Meditazione e raccoglimento».

Potrei moltiplicare gli esempi, raccontare come, dopo aver fatto suonare la Marcia funebre di Chopin arrangiata a mo’ di valzer in tre tempi ritmati, un certo numero di miei uditori ha creduto di riconoscere «una danza allegra, di primavera, che esprime la fedeltà dell’amore giovane». Ma le poche cose citate dai miei test dimostrano ampiamente come la musica sia inadeguata ad esprimere direttamente contenuti sentimentali.

Come fa però la musica a sfuggire al proprio àmbito per penetrare nella sfera del cuore umano e per destarvi dei sentimenti? Come fa il suo linguaggio «completo e chiuso», comprensibile solo da pochi adepti, a diventare lingua universale? Vediamo. Se la musica non sa esprimere il contenuto dei sentimenti, essa sa restituirne fedelmente, in ogni caso, il dinamismo.

I suoni sono caratterizzati, principalmente, dall’altezza, dall’intensità, dal ritmo – nel senso più ampio della parola, in quanto implica la misura – e dal timbro. Un suono riecheggia al nostro orecchio e vi produce, per se stesso, una sensazione accompagnata da un sentimento gradevole o sgradevole. Poi il suono sale e scende, sale ancora e scende di nuovo: disegna una melodia. Un suono è associato ad altri suoni, consuona o dissuona con essi, passa attraverso tonalità ben precise ed ecco l’armonia. Un altro si dilata o si assottiglia, assume un certo rilievo o si sfuma, colpisce il nostro orecchio con uno choc massiccio o lo sfiora come una carezza. I suoni si lanciano al seguito degli altri affrettandosi o attardandosi, si susseguono regolarmente, in un dato tempo, potenti o fragili, colorati o pallidi, in breve accentuati o non accentuati, ed ecco il campo della misura e del ritmo. Il suono proviene da una corda che vibra, da una corda vocale umana o animale; emana dal respiro della bocca o da uno schiaffo; fuoriesce da un pezzo di legno o di metallo o da una pelle che colpiamo ed ecco il timbro.   

Inoltre questo mondo dei suoni, in tutte le manifestazioni in cui li abbiamo distinti e che agiscono tutte di concerto, non sta mai fermo ma è in continuo divenire, in un moto perpetuo. I suoni passano, senza sosta, da un tono all’altro, da un grado d’intensità all’altro, da un tempo all’altro. Tutto vi scorre, fluisce, fugge. È un mare dalla marea crescente e discendente i cui flutti si addensano e si espandono per avvinghiarsi e sciogliersi di nuovo, si impennano, si ergono e si distendono, si ammucchiano in enormi ondate di fondo o si disperdono in mille goccioline, poi scivolano, s’incurvano, si premono, si sfilacciano e vanno pian piano a morire sul velluto della sabbia.

Ogni variazione di suono colpisce la nostra sensibilità in modo particolare e inesplicabile. Ci troviamo di fronte a fenomeni elementari la cui causa ci sfugge. La reazione della nostra affettività a quel suono, a quel timbro, a quella tonalità maggiore o minore rimane per noi misteriosa quanto quella data a quel colore o a quell’insieme di colori. La sensazione e la risonanza emozionale della sensazione costituiscono un enigma ancora irrisolto.

La cosa invece non enigmatica è la reazione di quell’affettività al movimento dei suoni, alla direzione e all’ampiezza di quel movimento. Il fatto è che anche la nostra sensibilità affettiva non sta mai ferma ed è in continuo divenire, in un moto perpetuo. Sensazioni, impressioni e affezioni si susseguono senza sosta nella nostra coscienza; noi passiamo continuamente dal benessere al malessere, dalla tensione alla distensione, dall’eccitazione alla depressione. Distoglietevi per un attimo dalla vita esterna e concentrate lo sguardo su voi stessi. Potrete constatare quell’andirivieni ininterrotto, il fluire e il defluire dei vostri stati di coscienza. Anch’essi si attirano e si respingono, si uniscono e si separano, si sposano e si ripudiano, si scontrano e si evitano, o meglio, in termini scolastici, si associano o si dissociano.

Cosa c’è di più naturale – data l’analogia tra il mondo dei suoni e la nostra natura profonda – del vedere nei movimenti dei suoni gli interpreti dei moti della nostra anima? Spontaneamente, irresistibilmente, noi ci identifichiamo nei suoni che si dispiegano davanti a noi; con essi saliamo e riscendiamo, ci dilatiamo e assottigliamo, ci espandiamo e restringiamo. Quel suono che rimane sospeso a schiudere il suo cuore sonoro è la nostra anima che plana. Quell’altro che si libra in volo e sale è il nostro Io che si slancia. Quell’altro ancora che scende è il nostro Io che cade nell’abisso. Alcuni suoni che si affrettano sono i nostri stati di coscienza che accelerano. Altri che si attardano sono i nostri stati d’animo sospesi. Altri ancora, dall’andatura convulsa, sono i nostri stati d’animo che affrontano un ostacolo.

Ciò che la musica è capace di esprimere è l’agitazione, la calma, il tentennamento, il fremito, il palpito, lo slancio, il ripiegamento, la tensione, la distensione. Ora, a tali stati d’animo che – sottolineiamolo – sono tutti fattori dinamici e agogici, mezzi di movimento e di direzione di forze, si associano naturalmente stati affettivi più definiti: all’agitazione l’inquietudine; alla calma la serenità gioiosa; allo slancio l’aspirazione; al ripiegamento il pudore; alla tensione la volontà e la gioia vitali; alla distensione la malinconia – e così via. Eppure queste determinazioni, a guardarle bene, per quanto più vicine al centro dove fermenta la nostra vita sentimentale e, quindi, a un preciso contenuto sentimentale, rimangono traduzioni, nel linguaggio affettivo, di qualità dinamiche. Sono direzioni di sentimenti e non sentimenti veri e propri. La mia anima si eleva con quei suoni che salgono ma lo scopo verso il quale quelli tendono – e verso il quale tende anche la mia anima dopo di loro – rimane inesprimibile. Ed è perché è inesprimibile che ognuno di noi può interpretare e interpreta, in sostanza, una pagina di musica sulla base delle preoccupazioni che lo abitano nel momento in cui l’ascolta. L’innamorato «si eleva» fino al volto della beneamata, l’ambizioso fino al luogo, al titolo e al posto di lavoro tanto desiderati, mentre, per il finanziere, conta il valore su cui specula e che vede «salire» a quote ignorate. È proprio questo che spiega come la musica, pur rimanendo quel «linguaggio completo e chiuso» che abbiamo detto di essere, possa diventare linguaggio universale, comprensibile, nel senso più profondo, solo dal musicista. Tuttavia essa dice, a ognuno di noi, le parole che vuol sentire, poiché siamo noi che insuffliamo in esse quel dato senso.

 

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Se tali visioni sono giuste potranno aiutarci a penetrare nel mistero della creazione di un’opera musicale e della sua interpretazione. Può essere interessante applicare questa teoria a un musicista come Schumann visto che, più di molti altri musicisti, egli sembra non solo aver espresso sentimenti definiti ma aver evocato – grazie a suoni, paesaggi e personaggi – scene della vita quotidiana. Da un lato il carattere sentimentale della musica schumanniana è subito evidente. Fervori torbidi, agitazione febbrile, angosce mortali, tenerezza tremante, candore virgineo, ardori nuziali, lamenti languidi, malinconie, nostalgie, sconforti laceranti, gioie «selvagge»: non è questo che sembra scaturire, in modo chiaro e distinto, dai Davidsbündler, dai Kreisleriana e dai Phantasiestücke? Dall’altro lato chi meglio dell’autore dei Papillons, del Carnaval, delle Scènes de la forêt e delle Visions d’Orient è riuscito a far sorgere davanti ai nostri occhi, guidati dall’orecchio, esseri e cose densi di realtà?

Guardiamo comunque più da vicino. Innanzitutto l’impressione sentimentale con cui ci pervade la musica di Schumann – tanto diversa da quella che suscita in noi la musica di Mozart, di  Beethoven e di Wagner – si spiega semplicemente con il dinamismo suo proprio e con i sentimenti indissolubilmente legati a quel dinamismo: l’agitazione e le sue febbri, l’incertezza e le sue angosce, gli slanci contrastati e il loro sconforto, le distensioni e i loro languori, il frazionarsi, lo spezzarsi dei ritmi e il loro ansimare. Tali fattori dinamici della musica di Schumann, anche se non avessimo nessuna testimonianza su di lui da parte sua né da parte di chi gli fu vicino, ci permetterebbero di ricostruire il suo temperamento, il tonus generale della sua anima, di quell’anima spezzata in due e sempre oscillante fra l’esaltazione e la depressione, fra l’allegria e la nostalgia, fra il fervore creatore e la disperazione inerte.

Lo stesso vale per quelle opere che rievocano scene e personaggi. Scegliamo la più nota, il Carnaval. Quanti critici si sono meravigliati della straordinaria fantasia di questa raccolta, della giustezza  e precisione delle immagini che Schumann vi ha disegnato, che ha colorato, modellato e imposto imperiosamente alla nostra immaginazione! Non sono forse così, vivi, eloquenti, riconoscibili da tutti, Pierrot, il sognatore pallido dall’incedere trascinato, o Arlecchino, lesto, molle e con quei suoi tipici balzi enormi, o ancora gli arzilli borghesi e le imponenti borghesi che calpestano, in una Promenade, il pavimento di una sala da ballo? Ebbene, noi sappiamo che tutta questa cangiante fantasmagoria è stata immaginata dopo, «a cose fatte». «La mia musica», ha detto lo stesso Schumann, «basta a se stessa, è abbastanza eloquente per se stessa». Il Carnaval, di fatto, non è che un tema – la, mi bemolle, do, si – con qualche variazione. Una volta trovato il tema, «nella sua armonizzazione più dolorosa», e le variazioni, egli ha concepito, «a cose fatte», l’idea del Carnaval. E, una volta che ne ha concepito l’idea, si è chiesto a quali maschere potesse corrispondere, a seconda del dinamismo, ogni piccolo brano che componeva la raccolta. Così è riuscito a mettere su, davanti a lui e davanti a noi, quel Pierrot, quell’Arlecchino, Eusebio, Florestano, Chiarina, Estrella e Coquette. Pur affermando che l’immaginazione musicale e l’immaginazione plastica sono concomitanti, Schumann dice espressamente che «un compositore non prende mai carta e penna con la vile intenzione di esprimere questa o quest’altra cosa, di descrivere, di raffigurare».

Dunque il musicista può evocare, per associazione, sentimenti e anche scene e personaggi. Bisogna però tenere a mente che si tratta pur sempre di associazioni, che quelle associazioni sono di una estrema malleabilità e che quella tal frase calma, a seconda degli uditori, può ricordare una schiarita dopo la tempesta, una radura nella foresta, la facciata di un tempio greco, una fisionomia dolce e serena.

Una volta d’accordo su questo, come potremo, però, interpretare un brano musicale? Seguendo scrupolosamente il cammino descritto fin qui. Prima dobbiamo entrare nel brano, identificarci nei suoni, viverne la vita, lasciarci trasportare dall’onda sonora come un nuotatore che aderisce a tutti i movimenti dei cavalloni dai quali è trasportato. È possibile descrivere i movimenti dell’onda sonora come è possibile disegnare la linea della melodia. Una si leva con slancio, ampliandosi, sviluppandosi, dischiudendosi secondo la legge della sua genesi sonora, planando sicura di sé, libera, ampia, piena di grazia, per poi tornare, mentre descrive una bella, languida curva, al punto di partenza. Un’altra, che sembra staccarsi dolorosamente dall’anima del musicista, descrive una linea spezzata, tormentata, convulsa, fatta di choc, soprassalti, ripiegamenti e soste, scossa febbrilmente da brividi, non solo in lotta con le forze esterne che la trasportano ma con gli elementi contrastanti della sua stessa sostanza. Altre ancora seguono traiettorie diverse. Tutte queste particolarità della linea melodica, e non solo della linea melodica ma dell’armonia, del ritmo e dei timbri, – si tratti di un brano d’orchestra o di una musica da camera – noi le possiamo descrivere ma, per poterle descrivere, le dobbiamo vivere: salire, scendere, sospendersi, fermarsi, riprendere slancio, straziarsi, ricostruirsi, tornare al punto di partenza per ritrovare la strada finché, dopo tante erranze, svanire piacevolmente alle porte di casa. Poi le dobbiamo associare, o meglio associamo spontaneamente in noi e, meglio ancora, si associano in noi a quei movimenti le direzioni sentimentali di cui sono i segni. Infine, se non temiamo le audacie avventurose, possiamo andare anche oltre e cercare di intuire il senso della direzione dei sentimenti, la mèta verso cui tendono e anche il loro contenuto. Il musicista che, scrivendo un’opera, è stato dominato da un sentimento – gioia, malinconia, eccitazione, depressione – e che «è stato sorpreso nel bel mezzo delle sue fantasie», come dice Schumann a proposito di Beethoven, «da qualche grande idea – l’idea di immortalità, l’idea del lutto suscitato in qualche nobile cuore dalla caduta di un eroe..., assalito da qualche visione – «l’Italia, le Alpi e il mare, un’alba primaverile»[22] – imprime al contorno delle sue melodie, al gioco delle armonie e dei suoi ritmi, il carattere generale della propria disposizione d’animo e desta negli uditori, grazie al titolo, associazioni che permettono di riprodurre in loro emozioni o immagini che hanno ossessionato la mente dell’artista e di cui si è liberato nella sua opera andando a popolare, con un minimo rischio di sbagliare, le onde mobili dei suoni.

 

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Abbiamo risolto del tutto il problema che ci siamo posti? Non mi sembra. Noto, rileggendo quanto ho scritto nella concezione appena esposta, una lacuna che è utile colmare. E, facendolo, ci addentreremo nel cuore stesso della questione.

La nostra teoria è fondata sull’analogia profonda che c’è tra il mondo dei suoni e il mondo della coscienza. Ciò che accomuna l’uno all’altro – lo abbiamo mostrato – è il fatto che gli elementi che li compongono sono in continuo movimento, si susseguono ininterrottamente, sono dominati dalla categoria del tempo. È proprio perché i suoni e gli stati di coscienza fuggono, scorrono e fluiscono senza sosta che noi identifichiamo istintivamente i suoni con i nostri stati di coscienza e che i movimenti dei suoni ci sembrano quelli della nostra stessa anima.

Una simile identificazione è proprio così naturale? L’uomo primitivo, il bambino, l’uomo incolto, nei quali l’Einfühlung, in musica, è spontanea e intima quanto negli adulti civilizzati, sono capaci di essere colpiti dal carattere consecutivo dei mezzi d’espressione della musica e dei nostri stati psichici? O non è questa una tardiva acquisizione della scienza che sfugge alla maggior parte dei cultori musicali e degli stessi musicisti?

Si potrebbe dire che l’Einfühlung musicale è un caso di Einfühlung più generale? Che c’è un legame psicologico primitivo, centrale, fra i suoni e gli stati psichici? Che una sorta di istinto ereditario ci spinge a tuffarci nel mare sonoro e a riconoscere, in ogni brivido di quelle ondate, i fremiti della nostra anima? O è forse questa una soluzione semplicistica? Inoltre, non potremmo opporre a questo ragionamento l’obiezione seguente: perché l’àmbito della musica è l’àmbito prediletto dell’Einfühlung? Noi sappiamo che le nostre immagini visive, che sembrano esserci date contemporaneamente, sono anch’esse, come tutto ciò che solca la coscienza, in un divenire e in un moto continuo. Sappiamo che se ci sembra di abbracciare con un semplice sguardo una distesa colorata o la facciata di un monumento, tale impressione d’insieme è, in realtà, la somma delle impressioni frammentarie che si susseguono in noi. E sappiamo, infine, che l’espressione musicale non è così dominata dal tempo come potrebbe sembrare, che la simultaneità vi trova posto e che se non fossimo capaci di rimescolare in uno stesso tutto gli elementi di cui è composta l’opera musicale e di avere quel tutto presente alla coscienza come un tutto, saremmo incapaci di dominare l’opera e di giudicarla.

Dobbiamo quindi spiegare con altre ragioni il carattere spontaneo e irresistibile dell’Einfühlung. Vediamole. Ogni emozione e ogni sentimento forte tendono a esprimersi attraverso un meccanismo psicologico che nessuno contesta. Tale modo di esprimersi consiste sia nel gesto che nel suono. Probabilmente noi non associamo affatto alla musica il grido e l’onomatopea che costituiscono le manifestazioni elementari dei sentimenti. E non pretendiamo che da quelle grida sia sgorgato il canto e, dal canto, tutta la musica. Questo è un altro problema che non dobbiamo trattare qui. Sicuramente noi non confondiamo mai del tutto il grido, espressione spontanea e irresistibile dell’emozione, con il canto che obbedisce a leggi proprie e che il grido nemmeno conosce. Quello che conta e che bisogna tenere a mente è che la voce, organo dei suoni, traduce naturalmente i sentimenti che ci agitano. Quando sentiamo dei suoni prodotti da altri vi percepiamo l’espressione dei loro sentimenti e li interpretiamo analogamente ai nostri. E quando sentiamo dei suoni prodotti non più da esseri umani ma da strumenti musicali, grazie ancora a un ragionamento analogico, quei suoni ci appaiono anch’essi esprimere dei sentimenti. In questo caso il ragionamento analogico è così semplice e risponde così bene alle nostre tendenze antropomorfiche che l’uomo primitivo, il bambino e l’uomo incolto ci paiono perfettamente capaci di esprimerli. Una volta che abbiamo identificato il mondo dei suoni con quello dei sentimenti e che il transfert si è realizzato, entra in gioco l’interpretazione dinamica di cui abbiamo descritto il meccanismo.

La musica, quindi, ricapitolando, può esprimere realmente e direttamente solo se stessa. Ciò nondimeno, essendo capace di restituire il dinamismo di tutti i sentimenti, di tutte le passioni e anche di tutte le creazioni intellettuali, può essere idonea a tradurre la vasta gamma dei sentimenti, indirettamente e analogicamente, con tutto ciò che ogni traduzione implica di «tradimento» e ogni analogia di possibilità di sbagliare.    

  




[1] Kritik der reinen Vernunft, Hartenstein, 1867, III, p. 81.
[2] Kritik der reinen Vernunft, p. 98 e 99.
[3] Ibidem, p. 576.
[4] Anthropologie, Hartenstein, t. VII, da p. 481 a p. 512.
[5] Kant a Jacob Sigismond Beck, 20 gennaio 1792, Kant Gesammelte Schriften, Éditions de l’AcadPmie Royale de Prusse, t. XI, p. 301.
[6] Kritik. der reinen Vernunft,  p. 579.
[7] Cfr. Dr  Alfred Hölder, Dartellung des Kantischen Erkenntwisstheorie, Tübingen, 1873, p. 51 e 45.
[8] Kritik. der reinen Vernunft,  p. 558.
[9] Ibidem, p. 569.
[10] Hölder, loc. cit., p. 52.
[11] Kant a Iacob Sigismond Beck, 1 luglio 1794, loc. cit, p. 496.
[12] Kritik. der reinen Vernunft, p. 572.
[13] Kant a Iacob Sigismond Beck, ibid.
[14] Kritik. der reinen Vernunft, p. 578.
[15] Ibidem.
[16] Kritik. der reinen Vernunft, p. 582.
[17] Con il nome di sintesi trascendentale dell’immaginazione esso (l’intelletto) esercita… Kritik. der reinen Vernunft, p. 128.
 
[18] Kritik. der reinen Vernunft, p. 143 e 142.
[19] Kritik. der reinen Vernunft, p. 67.
[20] Ibidem, p. 128.
[21] «Lasciami, lasciami contemplare il tuo viso»: versi di un’aria di Charles Gounod Faust. [Nota del traduttore].
[22] Robert Schumann, Gesammelte Schriften über Musik und Musiker, Leipzig, Reclau, t. 1, p. 108 e 109.