Una scelta ha tante ragioni ma nessuna di esse
determina la scelta stessa. Il principio determinante di una scelta è il gusto,
o un certo sentimento del tempo, per dirla con un filosofo e con un poeta.
La supposizione di una ragione, di un principio determinante
oggettivo alla base di una scelta, poggia sull’idea errata della scelta come
algoritmo, sull’idea impossibile di una visione onnisciente, su una fantasia di
calcolo totale delle opzioni da cui depennare quelle non eleggibili tanto da
ricavarne un’unica restante che sola risponderebbe a un certo requisito. Ma servono
i numeri per contare o serve l’atto intelligente di contare per maturare la
consapevolezza del numero?
Prima serve contare, serve distinguere uno da molti, riconoscere il tratto unitario in un certo profilo d’esperienza, sentire che nessuna persona vale l’altra. Poi vengono i numeri, viene il criterio, ossia il requisito dell’oggetto scelto. Ma prima viene l’oggetto. È il sorgere alla percezione dell'oggetto che segnala i suoi requisiti. Non è l’oggetto da solo che viene per primo ma è dall’aurora dell’oggetto in un soggetto che emanano i segnali elettivi, le istruzioni di scelta dell’oggetto a qualcuno che le sappia intendere. Solo quando l’allievo è pronto, il maestro compare. Solo quando si attiva il soggetto, l’oggetto compare. Ed è poi l’oggetto stesso che insegna i modi della sua cura mondana, la forma delle sue nascite, delle sue vite, delle sue tante morti. Est modus in rebus può significare anche questo: come nel giudizio riflettente la specificazione inessenziale precede la determinazione dell' essenza.
Prima serve contare, serve distinguere uno da molti, riconoscere il tratto unitario in un certo profilo d’esperienza, sentire che nessuna persona vale l’altra. Poi vengono i numeri, viene il criterio, ossia il requisito dell’oggetto scelto. Ma prima viene l’oggetto. È il sorgere alla percezione dell'oggetto che segnala i suoi requisiti. Non è l’oggetto da solo che viene per primo ma è dall’aurora dell’oggetto in un soggetto che emanano i segnali elettivi, le istruzioni di scelta dell’oggetto a qualcuno che le sappia intendere. Solo quando l’allievo è pronto, il maestro compare. Solo quando si attiva il soggetto, l’oggetto compare. Ed è poi l’oggetto stesso che insegna i modi della sua cura mondana, la forma delle sue nascite, delle sue vite, delle sue tante morti. Est modus in rebus può significare anche questo: come nel giudizio riflettente la specificazione inessenziale precede la determinazione dell' essenza.
Porre una ragione determinante dietro alla scelta è la
mossa teorica dettata da una emozione che invisibilmente cresce in dittatura,
in una istituzione di cui si è tanto meno consapevoli quanto più lungo è il
tempo che ci si è stati dentro: la paura di aprire la porta alle correnti
della vita. Il contrappeso che riporta in paro il bilanciere inclinato dalla
paura non è nelle fronde lucenti del coraggio ma nelle radici umide e oscure
della umiltà. L’umiltà è capace di ammettere che all'interno di quella porta
l'aria è poca. È l’umiltà, il suo intuitivo attaccamento alla terra, che ci fa
accorgere che non è un sonno fisiologico la ragione che non ci fa alzare dal
divano per cambiare aria ma è l’aria viziata e satura di gas tossico. Senza umiltà
prevale l'arroganza, l’ignoranza che eleva il metodo induttivo a funzione di
verifica di un enunciato universale. Ma una generalizzazione non diventa vera
adducendo un caso particolare. Proseguendo la ricerca, frequentando con continuità l’osservazione della
realtà, emergono sempre, prima o poi, casi contrari.
"Un codardo muore meno di un
coraggioso" non è affermazione che metta a riparo un vigliacco dalla morte.
Non è che un vigliacco non muore se, per evitare di farsi sconvolgere
emotivamente dall’urgenza di cambiare aria alla stanza della sua mente, se ne resta sul
divano a contare le pecore delle opzioni possibili.
Un criterio di scelta non dovrebbe essere subordinato
alla conclusione, ai risultati, ai frutti della ricerca. Ciò che verrebbe ad
essere davvero scelto non sarebbe così l’oggetto della scelta bensì l’atto di
interrompere la ricerca. Si sceglierebbe l’uscita dal campo di gioco come
strategia per accreditare il valore del gioco. Invece di imparare a guidare si sceglierebbe
di lasciare nel garage della propria testa quel veicolo che è troppo difficile
da guidare, quella scelta che è troppo sfuggente al controllo. In effetti non
si sceglierebbe niente se non il trucco con cui facciamo finta che niente sia
qualcosa, che scegliere sia risolvere
una equazione, che abbia a che fare con una qualche deduzione, con certezze inconfutabili.
Pregiudicandoci inidonei a vivere il disagio di non
vederci bene (ma anche sedotti dall’offerta analgesica dei paradisi esotici del
non sentire e regrediti allo stadio dell’inettitudine neonatale per cui al
primo sentire reagiamo come a un dolore insopportabile) rifiutiamo gli occhiali,
e, per compiacere il vitello d’oro della vanità, per blandire il predatore delle
nostre fantasie di realtà, del nostro regno di ragni e di sogni, ci attestiamo
su livelli di percezione dai quali la prima cosa che sembra non esserci più
siamo noi stessi, quella nostra fisionomia unitaria e unica, il nostro non
essere un numero ma persone capaci di contare, di avere i propri gusti, il proprio
sentimento del tempo, i propri desideri. Allora svendiamo l’idea di ricerca
come sperimentazione per prova ed errore (e più sono gli errori migliore è la
ricerca) con l’idea di ricerca come osservazione pura, imparziale, distaccata e
inattaccabile dalle cose che osserva.
Autosomministrarsi il questionario del perché di una
scelta (di una propria scelta personale e non di una qualunque scelta
commerciale sul cui calco troppo spesso improntiamo ogni nostra scelta che invece
ha senso solo se assoluta e non omologabile) significa disconoscere alla
nozione di scelta ciò per cui essa fa di un individuo ciò che è in ragione
della storia unica delle sue scelte. Significa mettere sotto sforzo l’idea
stessa di riflessione abusandone allo scopo di rendere reversibile
l’irreversibile del tempo che passa. Mettere in pausa la propria storia non è
impossibile. Ma per farlo non possiamo metterla da parte come fosse l’ultima
prelibata fetta di torta al lampone e nocciola.
Squarcia piuttosto la tela del finito. Lascia che la
luce dell’infinito lo inondi. Non restare in banchina a guardare le navi che salpano
senza mai prenderne una. Puoi ammettere a te stesso che non è una nave quella
su cui ti trovi ma è la chiatta del paterno ostello e la scelta che hai fatto è
quella, ardita, di salpare nella vasca di casa? Altrimenti saremo per sempre degli
stupidi salmoni che tentano rovinosamente di risalire un torrente asciutto la
cui corrente amniotica da cui erano nati ora scorre altrove.