giovedì 19 ottobre 2017

Un dolore sopportabile


Una scelta ha tante ragioni ma nessuna di esse determina la scelta stessa. Il principio determinante di una scelta è il gusto, o un certo sentimento del tempo, per dirla con un filosofo e con un poeta.
La supposizione di una ragione, di un principio determinante oggettivo alla base di una scelta, poggia sull’idea errata della scelta come algoritmo, sull’idea impossibile di una visione onnisciente, su una fantasia di calcolo totale delle opzioni da cui depennare quelle non eleggibili tanto da ricavarne un’unica restante che sola risponderebbe a un certo requisito. Ma servono i numeri per contare o serve l’atto intelligente di contare per maturare la consapevolezza del numero?
Prima serve contare, serve distinguere uno da molti, riconoscere il tratto unitario in un certo profilo d’esperienza, sentire che nessuna persona vale l’altra. Poi vengono i numeri, viene il criterio, ossia il requisito dell’oggetto scelto. Ma prima viene l’oggetto. È il sorgere alla percezione dell'oggetto che segnala i suoi requisiti. Non è l’oggetto da solo che viene per primo ma è dall’aurora dell’oggetto in un soggetto che emanano i segnali elettivi, le istruzioni di scelta dell’oggetto a qualcuno che le sappia intendere. Solo quando l’allievo è pronto, il maestro compare. Solo quando si attiva il soggetto, l’oggetto compare. Ed è poi l’oggetto stesso che insegna i modi della sua cura mondana, la forma delle sue nascite, delle sue vite, delle sue tante morti. Est modus in rebus può significare anche questo: come nel giudizio riflettente la specificazione inessenziale precede la determinazione dell' essenza.
Porre una ragione determinante dietro alla scelta è la mossa teorica dettata da una emozione che invisibilmente cresce in dittatura, in una istituzione di cui si è tanto meno consapevoli quanto più lungo è il tempo che ci si è stati dentro: la paura di aprire la porta alle correnti della vita. Il contrappeso che riporta in paro il bilanciere inclinato dalla paura non è nelle fronde lucenti del coraggio ma nelle radici umide e oscure della umiltà. L’umiltà è capace di ammettere che all'interno di quella porta l'aria è poca. È l’umiltà, il suo intuitivo attaccamento alla terra, che ci fa accorgere che non è un sonno fisiologico la ragione che non ci fa alzare dal divano per cambiare aria ma è l’aria viziata e satura di gas tossico. Senza umiltà prevale l'arroganza, l’ignoranza che eleva il metodo induttivo a funzione di verifica di un enunciato universale. Ma una generalizzazione non diventa vera adducendo un caso particolare. Proseguendo la ricerca, frequentando con continuità l’osservazione della realtà, emergono sempre, prima o poi, casi contrari.  "Un codardo muore meno  di un coraggioso" non è affermazione che metta a riparo un vigliacco dalla morte. Non è che un vigliacco non muore se, per evitare di farsi sconvolgere emotivamente dall’urgenza di cambiare aria  alla stanza della sua mente, se ne resta sul divano a contare le pecore delle opzioni possibili.
Un criterio di scelta non dovrebbe essere subordinato alla conclusione, ai risultati, ai frutti della ricerca. Ciò che verrebbe ad essere davvero scelto non sarebbe così l’oggetto della scelta bensì l’atto di interrompere la ricerca. Si sceglierebbe l’uscita dal campo di gioco come strategia per accreditare il valore del gioco. Invece di imparare a guidare si sceglierebbe di lasciare nel garage della propria testa quel veicolo che è troppo difficile da guidare, quella scelta che è troppo sfuggente al controllo. In effetti non si sceglierebbe niente se non il trucco con cui facciamo finta che niente sia qualcosa,  che scegliere sia risolvere una equazione, che abbia a che fare con una qualche deduzione, con certezze inconfutabili.
Pregiudicandoci inidonei a vivere il disagio di non vederci bene (ma anche sedotti dall’offerta analgesica dei paradisi esotici del non sentire e regrediti allo stadio dell’inettitudine neonatale per cui al primo sentire reagiamo come a un dolore insopportabile) rifiutiamo gli occhiali, e, per compiacere il vitello d’oro della vanità, per blandire il predatore delle nostre fantasie di realtà, del nostro regno di ragni e di sogni, ci attestiamo su livelli di percezione dai quali la prima cosa che sembra non esserci più siamo noi stessi, quella nostra fisionomia unitaria e unica, il nostro non essere un numero ma persone capaci di contare, di avere i propri gusti, il proprio sentimento del tempo, i propri desideri. Allora svendiamo l’idea di ricerca come sperimentazione per prova ed errore (e più sono gli errori migliore è la ricerca) con l’idea di ricerca come osservazione pura, imparziale, distaccata e inattaccabile dalle cose che osserva.
Autosomministrarsi il questionario del perché di una scelta (di una propria scelta personale e non di una qualunque scelta commerciale sul cui calco troppo spesso improntiamo ogni nostra scelta che invece ha senso solo se assoluta e non omologabile) significa disconoscere alla nozione di scelta ciò per cui essa fa di un individuo ciò che è in ragione della storia unica delle sue scelte. Significa mettere sotto sforzo l’idea stessa di riflessione abusandone allo scopo di rendere reversibile l’irreversibile del tempo che passa. Mettere in pausa la propria storia non è impossibile. Ma per farlo non possiamo metterla da parte come fosse l’ultima prelibata fetta di torta al lampone e nocciola.
Squarcia piuttosto la tela del finito. Lascia che la luce dell’infinito lo inondi. Non restare in banchina a guardare le navi che salpano senza mai prenderne una. Puoi ammettere a te stesso che non è una nave quella su cui ti trovi ma è la chiatta del paterno ostello e la scelta che hai fatto è quella, ardita, di salpare nella vasca di casa? Altrimenti saremo per sempre degli stupidi salmoni che tentano rovinosamente di risalire un torrente asciutto la cui corrente amniotica da cui erano nati ora scorre altrove.