Rosina, a sette anni, era agile e ovviamente piccola. Verso le due, dopo pranzo, riempiva dal lavello del bagno la sua bottiglietta di acqua fresca, se la infilava nel tascone profondo dietro la schiena – tipo maglietta dei ciclisti ma di un cotone ammorbidito e stinto dall'uso – e se ne scendeva sottocasa per entrare tra le fronde del suo vecchio ulivo. Per lei era più facile che salire le scale e ci si muoveva con una confidenza tale da far pensare che tronco e rami facessero tutt'uno col suo corpo di bambina invaghito della sua stessa agilità. Seguiva una sequenza di mosse diventata il suo protocollo di accesso all'albero, il suo rito di saluto: dapprima lo scalava fin su la vetta, ovvero inerpicandosi sul tronco più estremo che ancora la poteva tenere – proprio là dove gli uccellini e le formiche, di contro a lei, detenevano il privilegio dei ramoscelli più alti, pennacchi di fogliame appena trattenuti dalle grinfie del vento su rametti tipo lische di sardina. Poi ridiscendeva subito al piano centrale come se la montata in cima non fosse servita da avvistamento dello spazio quanto da avviso a questo della sua presenza. Allora si soffermava qui e, come fosse una lancetta dei minuti, nel giro di pochi istanti, roteava su se stessa per riempirsi gli occhi di tutte le 360 prospettive dei gradi dell'angolo tondo. Aveva trovato il sistema di sedersi sul punto di convergenza alla base dei rami e qui di fare perno con le manine, rette da polsi forti e sottili, per ruotare completamente, sforbiciando le gambette a cavalcioni dei raggi di ramo che incontrava girando. La sua girandola era più o meno rapida a seconda dei giorni, più o meno regolare, fluida sincopata, incerta, svelta, abile o impacciata. Quindi la ripeteva fino alla direzione che avrebbe imboccato e poi partiva. Poteva andare a sdraiarsi sul letto ricavato da un'ala del legno particolarmente comoda, puntare allo sgabello per bersi l'acqua mentre i piedi, senza toccar terra, penzolavano proprio come nella cucina di casa. Poteva sedersi sul tronco ad elle senza corteccia, liscio liscio, identico a una sedia dallo schienale troppo eretto per ponderazioni facili o adagiarsi invece sulla sdraio di un bel tronco piatto e inclinato, catapulta verso sogni a occhi aperti, verso pisolini iper-reali di mamme buone che ti coprono e che ti risvegliano al profumo della schiuma per il bagno pronto, della lavanda dei vestitini, del latte bollito. Poteva infilarsi nell'incavo antipioggia o andar più dentro, nella caverna a prova di tormenta, dove però non si entrava che carponi. C'era l'anta delle olive, da dove allenare la mira per il lancio delle stesse in bassura, e il ramo-altalena, la bilancia, lo scivolo, la molla, lo yo-yo, la spalliera svedese, l'osservatorio a feritoia, il megafono, il pulpito, l'amaca, il trampolino, l'avamposto del vento, del sole, dell'ombra. Il tronco era uno ma i rami erano tanti, come tanti erano i suoi amici.
Un giorno il giardiniere amputò il letto che si era ammalato: una coccinella, bella solo per far rima e difatti brutta, senza i pois neri sulla veste rossa, se lo era rosicchiato tutto a forza di impiantarci dentro le sue uova, uova che, a loro volta, poverette, erano state depredate da un verme che ne andava ghiotto ma la cui stirpe, presto, finì anch'essa sterminata dal colesterolo andando a nutrire quel fungo infestante che aveva orribilmente maculato il letto di Rosina infradiciandolo fino all'osso. Rosina se ne dispiacque ma continuò a frequentare il suo ulivo. Non poteva più dormirci ma avrebbe provato ad usare come letto la sdraio o altro luogo. Riuscì così a riadattarsi alla situazione e il dispiacere, apparentemente, dileguò, almeno a giudicare dalla speditezza con cui ruotava la giostra del suo speciale saluto. Quando i giorni tristi dell'amputazione del ramo-letto già sembravano non essere mai esistiti, un nuovo ramo se ne andò, e questa volta da solo, senza neppure l'incalzare della tempesta. Era una perdita, se paragoni son mai leciti, più grave della precedente. A venir giù era stata l'intera "ala-intemperie", "cava antitormenta" inclusa. Ma gli ulivi sono alberi strani. Più che di rami sono fatti di rotolini di corteccia che, per qualche secolo, invece di aprirsi, decide di star stretta su di sé, compatta come un blocco di cilindro. Quando il trascorrere del tempo ne indebolisce l'abbraccio essa si riapre, si fa rotolo di pergamena appena letto e coi riccioli ancora rigirati. Per questo l’ala cadde. Ma anche se gli ulivi fossero alberi non strani comunque accadrebbe e "perché" accada è uguale a "come" accada, di entrambi poco interessa. Interessa solo che dopo l' accaduto non si possa star più dentro quell’essere che l’accadere ha portato via. E ci si riadatta. Il giorno arrivò in cui Rosina si ritrovò seduta sul solo tronco dal quale ormai nessun ramo non diramava più. Faceva ancora la sua girandola, senza sforbiciate delle gambe però – i raggi del resto non c’erano e così neppure c'era più il bisogno di levar le gambe. Ruotava, nuotava, vorticava veloce come un fuso fino a quando sul finire di un'estate più lunga delle altre si conficcò nell'osso del ciclone e se ne fece midollo.