Mi fido di te perché la tua intelligenza è più grande delle minute intellezioni dalla cui caverna non hai il coraggio di uscire.
Mi fido di te perché la tua paura è più intelligente del tuo desiderio di potere.
Non importa se questo appetito è quasi nausea, se è la solita vecchia proiezione che definisce le tue giornate. Nelle sue scene ci rientri ormai per abitudine - l'abitudine di evitare il potere del desiderio.
Di evitare la stabilità instabile che rende il passo celere e grazioso.
Di evitare, non tanto le cadute, quanto quel loro insopportabile verbale dai cui commenti ancora non ti sei separato.
Mi fido di te perché hai paura.
La paura fa barattare il nome per la cosa, scambia la volontà per la potenza. Ma la paura non si baratta. Si impone. Ti spoglia e ti ritrovi affacciato a me ad occhi nudi.
Finalmente nell'aria si levano profumi reali. L'essere in funzione copre l'odore da laboratorio dell'essere in ricognizione.
Allora, per sbaglio, in un istante ti fidi di me. E in quell'abbaglio io mi fido di te.
Dalle fessure della notte filtra la luce della indecisione: voglio perché posso o posso perché voglio? velleità o verità? consumismo o vita? forza o risonanza?
Ed è allora che dici bene: non mi chiedi se sono certa ma se sono tranquilla.
Non serve decidere ma percepire almeno un po' quella interdipendenza simultanea che esige una fisicità quantica capace di dirigere gli opposti tenendoli insieme separatamente.
I contrari aggrediscono l'anima che formalizza, perché il massimo della definizione non pertiene alla materia ma alla sua formula.
I contrari curano l'anima che materializza, perché il massimo della intensità non pertiene alla forma ma alla sua specificazione.
Tuttavia è nell'abisso del mare che l'anima è più sicura: al di sotto della superficie delle acque scossa dalle opposte correnti o incantata dalla bonaccia che ne fa uno specchio di Narciso, solo lì sotto l'anima è tranquilla.
Può risuonare se c'è un richiamo oppure sparire dalle frequenze più trafficate e passeggiare lentamente ad alta quota.
lunedì 25 dicembre 2017
giovedì 30 novembre 2017
Etica Globale (compendio per gli amici)
Etica Globale nella Pratica Filosofica
Compendio da Michael Noah Weiss, The Socratic Handbook, 2015, pp. 411-18
La Pratica Filosofica è una professione sulla scia
della maieutica socratica. Essa porta il filosofare attraverso
il dialogo dentro le attività
quotidiane sia private che sociali, come affari, educazione,
politica ecc.
La filosofia, in quanto universale umano storicamente
rintracciabile in tutte le culture, è ricerca della verità, generazione di
saggezza, messa in questione di dogmi, interrogazione della realtà,
trascendimento del dato immediato, nascita di idee, sviluppo della
conoscenza.
Il dialogo è un processo comunicativo con finalità aperte e senza scopi specifici; si
può paragonare a un viaggio di almeno due persone alla scoperta di nuovi reami
all’interno dei paesaggi della mente. Indispensabile al dialogo è un
atteggiamento etico di comunanza. Ai partecipanti non
sono richieste particolari conoscenze, esperienze o abilità.
Punto 1: Il principio di umanità
-
Ogni essere umano ha la capacità di filosofare, cioè di riflettere, di mettere in questione, di pensare in modo
critico, di trascendere il dato per scoprire nuove idee e punti di vista
-
Essendo
unico, ogni essere umano ha un modo
unico di pensare, di sentire, di
avere credenze che gli consente di filosofare, di apprezzare l’unicità e
l’interezza del suo essere, di affermare la sua dignità
-
In
ottemperanza al principio di umanità il partecipante di una pratica
filosofica non è mai un cliente, come in altre professioni, ma unicamente un essere umano in quanto tale
-
Per dare
vita e salvaguardia a quegli aspetti che ci rendono umani bisogna accantonare ogni idea preconcetta di umanità
Punto 2: Etica della reciprocità
-
L’etica
della reciprocità è anche detta Regola d’Oro. Essa recita: “Non fare all’ altro ciò che non vorresti fosse fatto
a te” ovvero “Fai all’altro ciò
che vorresti fosse fatto a te”
- Ascoltando l’ingiunzione delfica:“Conosci te stesso!” è possibile sapere davvero, attraverso una riflessione corretta, cosa voglio e cosa non voglio (ordine del cuore)
- Ascoltando l’ingiunzione delfica:“Conosci te stesso!” è possibile sapere davvero, attraverso una riflessione corretta, cosa voglio e cosa non voglio (ordine del cuore)
-
Ogni
essere umano tende a una vita buona relativamente all’idea personale che, attraverso la riflessione, riesce a
farsi di valori esistenziali quali l’indipendenza economica, la salute,
la famiglia, il partner, gli amici ecc.
-
Questi
valori esistenziali volti al conseguimento del proprio benessere possono
scontrarsi con i valori etici se causano malessere negli altri (egoismo).
Bisogna allora riflettere sull’etica della reciprocità e individuare quei valori esistenziali che,
essendo buoni sia per sé sia per gli altri, sono anche valori etici
-
Dunque riflettere è il pre-requisito di ogni etica della reciprocità
-
Prendere sul serio, non ridicolizzare, non
trascurare, non attaccare le opinioni, i sentimenti, le idee che sono
espressi nel dialogo
-
Non usare
la conoscenza come potere sull’altro per subordinarlo, manipolarlo, svilirlo, opprimerlo, escluderlo ecc.
-
Aver riguardo per il benessere, l’integrità, la dignità, l’autonomia del partner di dialogo
-
Assumersi
la responsabilità della vita analizzando bene cosa richiedano le
circostanze, gli altri e se stessi. Per non disperdersi rispetto a ciò che è essenziale
può essere utile prendere in considerazione interrogativi quali: Chi sono? La
vita ha un senso superiore? Da dove vengo? Dove vado? Come mi relaziono agli
altri? Cosa significa per me una vita buona? Cosa la rende degna di essere
vissuta?
-
Aiutare
gli altri ad esprimersi affinché siano all’altezza dell’unicità delle proprie potenzialità
mentali, emotive e spirituali
-
Obbligo
alla confidenzialità e riservatezza salve in
caso di minaccia alla vita
Punto 4: Solidarietà e lealtà
-
Il dialogo
è una Comunità di Ricerca che si basa sulla condivisione solidale e sulla equità in senso etico, non sulla
uguaglianza delle competenze
-
Un dialogo
è leale se non
offende nessuno, se non
degrada i partecipanti sul piano di una mera opinione e lascia a tutti uguale spazio di espressione
Punto 5: Franchezza e tolleranza
-
La
franchezza rende il dialogo autentico e l’autenticità crea
fiducia; la fiducia e uno spazio sicuro consentono ai partecipanti di aprirsi, di esprimersi liberamente, di scoprire i propri pensieri, sentimenti e
convinzioni più vere
-
La
franchezza è essere veri con se
stessi
-
Franchezza
è anche stare dentro i limiti delle competenze e demandare ai rispettivi
esperti le questioni che esorbitano dalla portata di un dialogo filosofico
-
Il dialogo
presuppone la tolleranza che permette di abbracciare una medesima
questione da prospettive diverse
Punto 6: Stima reciproca e alleanza
-
Stima reciproca e alleanza sorreggono lo studio in comune che avviene nel dialogo; diversamente da
un colloquio terapeutico, nella pratica filosofica non c’è gerarchia di
conoscenze
-
Stima
reciproca e alleanza sono i pre-requisiti essenziali del dialogo perché i
partecipanti fanno affidamento sulle opinioni e prospettive dei loro partner
per il risveglio della
consapevolezza personale ed etica
-
La stima di
sé come dignità personale e non come autostima egoistica risiede nella
stima reciproca, nel riconoscimento della
propria unicità attraverso quella altrui
mercoledì 29 novembre 2017
Falsche Bewegung
Il nostro treno
Possiamo lasciarli passare certi treni attraverso di noi? Abbiamo pronte le rotaie oppure li lasceremo deragliare e rovinare? Possiamo rinunciare a quei treni per i quali capiamo di non aver ancora pronte le rotaie? Magari non per sempre ma fino a quando il cantiere non avrà terminato i lavori.
Non sempre ci mettiamo sul treno giusto e spesso non riusciamo a scenderne neppure dopo aver visto dal finestrino che la direzione è sbagliata.
L'intelligenza ha bisogno di onestà, l'onestà ha bisogno di coraggio. Ma questo cuore agguerrito del coraggio non può farcela senza cuore. Senza averi non possiamo farcela. Questi averi, però, devono essere pochi, concentrati, essenziali. Come essenziale è il felino che troppo magro non può, troppo pieno neanche, scattare fulmineo come talvolta vorrebbe.
sabato 18 novembre 2017
Arrangiamento della Meditazione guidata di Mauro Scardovelli
Arrangiamento della Meditazione
guidata di Mauro Scardovelli
registrazione su youtube del 13 giugno 2016 https://www.youtube.com/watch?v=PSzHmj15_6U
a cura di Silvia Peronaci
Ci sediamo disponendo la colonna in posizione
verticale. Appoggiamo bene i piedi a terra e
scostiamoci dallo schienale. Le prossime istruzioni saranno seguite morbidamente, senza forzare. Prestando attenzione a come ci muoviamo possiamo accorgerci in tempo se un certo movimento sta per farci male e fermarci prima che cominci il dolore. Il dolore è un semaforo rosso che vediamo solo dopo essere andati a sbattere ma se ci muoviamo in modo consapevole trasformiamo noi stessi in una fonte prodigiosa
di piacere e di armonia.
Contraggo pancia e perineo. In modo graduale, delicato, fluido e deciso risucchio i visceri verso la schiena, li sollevo. Nello stesso istante, stacco i denti, distendo il viso. Mi fermo e osservo. La colonna è già salita. La sommità del capo, sede di Sahasrara Chakra, vortice di petali, si protende verso il cielo. Inspirando portiamo dolcemente le braccia sopra la testa. Le distendiamo in alto mentre l’aria resta per qualche attimo nei polmoni. Ora le riportiamo giù. Le facciamo scendere lentamente passando ai lati del corpo mentre l’aria lascia i polmoni attraverso il naso. Respiriamo sempre attraverso il naso. Il mento è parallelo al pavimento. Il capo lievemente arretrato sul collo. Mandibole e lingua decontratti. Viso disteso, inespressivo, nessuna posa da selfie. Non vogliamo dire niente. Chiudiamo gli occhi fuori per spalancarli sui panorami interni, su quegli scenari dentro di noi dove i cinque sensi si mescolano dando vita ad altri sensi, ad altre sensazioni, ad altri mondi possibili. Se la colonna è verticale c’è un retto sforzo e difficilmente possiamo addormentarci o intorpidirci. La colonna retta non è un dono naturale che qualcuno ha la fortuna di avere e qualcun altro no ma è un impegno a tenerla dritta. È una decisione che prendiamo e riprendiamo di volta in volta. È essere attivi. È il nostro portamento esistenziale. Questa verticalizzazione è un simbolo: il rapporto tra la terra e il cielo, l’unione di femminile e maschile, la partecipazione di corpo e mente. È il simbolo dell’homo sapiens che conquistando la posizione eretta trova le mani, le dita creatrici. Con questa ricerca posturale noi incarniamo un simbolo e facciamo un rito: la nostra azione non mira solo allo scopo utilitaristico di curare il mal di schiena quanto piuttosto a farci fare un’esperienza armonica, a farci sentire la musica dentro l’atto di esistere. Forse vogliamo esprimere gratitudine, grazia, gentilezza. Forse ritrovare quell’eleganza naturale che gli attaccamenti egotici ci hanno fatto perdere. Appoggiamoci dunque bene alla terra coi piedi, radichiamo il bacino alla sedia ma, contemporaneamente, puntiamo in alto, in direzione del cielo, dell’infinito, della coscienza infinita. La coscienza può espandersi fino a comprendere tutto ciò che c’è. Più la coscienza si eleva, più amplia la sua visione e più la nostra vita è felice. In inglese felice è happy, da happen, succedere. Felice è chi lascia succedere, chi lascia che le situazioni cambino, che la fase nuova succeda alla vecchia, imparando dalla luna. Felice chi non trattiene, non blocca, non si attacca a una permanenza ingannevole ma è capace di riconoscere quando è il tempo giusto di lasciare andare. Al contrario, più la coscienza è ristretta, capace di considerare solo poche cose, paurosamente abbarbicata a ciò che crede di avere, più la vita è ricca di sofferenze.
Contraggo pancia e perineo. In modo graduale, delicato, fluido e deciso risucchio i visceri verso la schiena, li sollevo. Nello stesso istante, stacco i denti, distendo il viso. Mi fermo e osservo. La colonna è già salita. La sommità del capo, sede di Sahasrara Chakra, vortice di petali, si protende verso il cielo. Inspirando portiamo dolcemente le braccia sopra la testa. Le distendiamo in alto mentre l’aria resta per qualche attimo nei polmoni. Ora le riportiamo giù. Le facciamo scendere lentamente passando ai lati del corpo mentre l’aria lascia i polmoni attraverso il naso. Respiriamo sempre attraverso il naso. Il mento è parallelo al pavimento. Il capo lievemente arretrato sul collo. Mandibole e lingua decontratti. Viso disteso, inespressivo, nessuna posa da selfie. Non vogliamo dire niente. Chiudiamo gli occhi fuori per spalancarli sui panorami interni, su quegli scenari dentro di noi dove i cinque sensi si mescolano dando vita ad altri sensi, ad altre sensazioni, ad altri mondi possibili. Se la colonna è verticale c’è un retto sforzo e difficilmente possiamo addormentarci o intorpidirci. La colonna retta non è un dono naturale che qualcuno ha la fortuna di avere e qualcun altro no ma è un impegno a tenerla dritta. È una decisione che prendiamo e riprendiamo di volta in volta. È essere attivi. È il nostro portamento esistenziale. Questa verticalizzazione è un simbolo: il rapporto tra la terra e il cielo, l’unione di femminile e maschile, la partecipazione di corpo e mente. È il simbolo dell’homo sapiens che conquistando la posizione eretta trova le mani, le dita creatrici. Con questa ricerca posturale noi incarniamo un simbolo e facciamo un rito: la nostra azione non mira solo allo scopo utilitaristico di curare il mal di schiena quanto piuttosto a farci fare un’esperienza armonica, a farci sentire la musica dentro l’atto di esistere. Forse vogliamo esprimere gratitudine, grazia, gentilezza. Forse ritrovare quell’eleganza naturale che gli attaccamenti egotici ci hanno fatto perdere. Appoggiamoci dunque bene alla terra coi piedi, radichiamo il bacino alla sedia ma, contemporaneamente, puntiamo in alto, in direzione del cielo, dell’infinito, della coscienza infinita. La coscienza può espandersi fino a comprendere tutto ciò che c’è. Più la coscienza si eleva, più amplia la sua visione e più la nostra vita è felice. In inglese felice è happy, da happen, succedere. Felice è chi lascia succedere, chi lascia che le situazioni cambino, che la fase nuova succeda alla vecchia, imparando dalla luna. Felice chi non trattiene, non blocca, non si attacca a una permanenza ingannevole ma è capace di riconoscere quando è il tempo giusto di lasciare andare. Al contrario, più la coscienza è ristretta, capace di considerare solo poche cose, paurosamente abbarbicata a ciò che crede di avere, più la vita è ricca di sofferenze.
Rivediamo i gesti di verticalizzazione: mentre ispiriamo
allunghiamo in alto le curve delle vertebre lombari e cervicali, mentre espiriamo ci
abbandoniamo. Non vogliamo incurvarci, ricadere su noi stessi e chiuderci, ma vogliamo allentare, rilasciare le
contrazioni muscolari mentre il soffio vitale va in risacca e porta l’aria
fuori. Ma quando il vento rimonta dentro di noi spingiamo di nuovo i muscoli
verso l’alto per accogliere la nuova onda d’aria. Ogni muscolo partecipa nell'accrescere il volume del ventre, del torace, di ogni nostra cellula che vuole
ossigeno, che brama vita. All’inizio è un lavoro perché i muscoli si devono
rafforzare, si deve rafforzare l’io che ci governa. Non un irrigidimento ma un
moto di verticalizzazione e un moto di abbandono, un ritmo che alterna spinta
verso l’alto a ritorno a terra, rilasciamento. Colleghiamo così ciò che è
materiale con ciò che è ideale: fratellanza, bellezza, armonia, forza,
gentilezza, empatia. Non è facile. Più facile è buttarsi giù, abbandonarsi alla
via di minore resistenza. La via intrapresa dalla nostra società delle passioni
tristi.
Ma già l’atto di sedersi nel modo che stiamo descrivendo, è
un atto rivoluzionario, una rivolta dello spirito. Rivoluzionario è fare un uso
proprio del cervello, attivare certe zone e inibirne altre. Attiviamo la
testimonianza incondizionata, l’amorevole presenza a se stessi, la
consapevolezza non giudicante e lasciamo andare il controllo che alimenta le
compulsioni, che ne toglie una e ne crea un’altra. Praticare meditazione porta
a trasformare la morfologia del cervello e a farne una struttura che sostiene
la fede nella vita invece che la sfiducia. Non serve farlo una tantum. Se per questo sentiero ci passiamo troppo di rado, le
erbacce lo ricoprono subito. Dobbiamo passarci e ripassarci perché resti aperto.
E così sarà sempre meno automatico imboccare la vecchia via che, nel disuso, si
è riempita di sterpaglie.
Stare seduti: inspiro, ricevo il principio vitale, sorrido;
i muscoli del viso e delle spalle si distendono perché non siamo più arrabbiati
col mondo. Mentre mantengo la posizione in verticale l’inspirazione diventa
piena; il torace si apre, si pone fine
alla tendenza delle spalle di proteggere il cuore, la ferita. Non c’è bisogno
di proteggere niente. Dal momento in cui impariamo a sederci, a
verticalizzarci, a divinizzarci non abbiamo più bisogno di proteggerci. Possiamo
lasciare andare le nostre difese perché non siamo più bambini piccoli. Stare
seduti in questo modo è già diventare genitori di se stessi. Inspirando,
verticalizzandoci, sviluppiamo la consapevolezza di prendere la vita dentro di
noi attraverso un retto sforzo, dunque, naturalmente, ci viene di sorridere. Espirando,
ci affidiamo alla terra, ci abbandoniamo. Rimaniamo in posizione verticale ma
un po’ più morbida. Alla prossima inspirazione c’è un lieve inarcamento
lombare, un distanziamento delle vertebre cervicali, un lieve arretramento
della testa la cui sommità spinge verso il cielo. Durante l’espirazione, c'è la
coscienza che lascio andare, che non mi attacco a nulla, che mi affido; non mi
aggrappo, non devo trattenere l’aria ma rilassarmi. Lascio andare tutto, anche
l’aria. Mi abbandono con un grande atto di fiducia, con la certezza che l’aria
che lascio ritornerà. Quando respiriamo così, diventiamo un re che si
verticalizza e una regina che si abbandona alla terra. Alterniamo in un ritmo
armonico la retta tensione alla retta distensione, la tensione verso gli
ideali, e il ritorno alle piccole cose quotidiane, al qui ed ora. Questo semplice
atto di stare seduti con la consapevolezza della postura verticale, questa coscienza di inspirare sorridendo in gratitudine e di espirare in un abbandono fiducioso con il tempo è generativo di salute fisica emotiva mentale e
spirituale. Nel momento in cui siamo seduti così stiamo già guarendo. Anche se
siamo ancora pieni di contrazioni e pensieri tossici, di vecchie emozioni,
vecchie immagini. Durante l’espirazione noi stiamo lasciando andare senza
attaccamento tutto, anche gli attaccamenti al nostro passato, alle nostre
abitudini, ai nostri pensieri ripetuti infinite volte, non più pensieri
pensanti ma pensieri vecchi, già pensati, utili soltanto a un tempo che ormai non c’è.
Lasciamo andare le vecchie cose che non servono più. Stiamo aprendo tutte le
finestre e le porte per far uscire quegli oggetti del passato che
ingombrano la nostra casa interiore. Stiamo prendendoci cura di noi stessi come
una madre che si prende cura dei figli senza mai essere stanca. L’io materno si
prende cura di ciò che è più vicino, le sensazioni del corpo, le emozioni, i
pensieri. Poi c’è l’io paterno che fa da ponte tra l’interno e l’esterno; ci fa
crescere verso la comunità, ci fa uscire dall’attaccamento alla madre, a ciò che è noto e ci apre
alla socialità esterna alla famiglia, all'ignoto. Verticalizzandoci con l’inspiro
rinforziamo l’io paterno, abbandonandoci con l’espiro, rinforziamo l’io
materno. Pian piano i nostri occhi si ammorbidiscono, diventano liquidi, i
muscoli oculari, che sono tra i muscoli più attivi del corpo, hanno bisogno di
riposarsi e questo avviene quando ci abbandoniamo. Se gli occhi non si lasciano
andare diventano duri e poi freddi e grigi e non c’è niente di bello per occhi
così, il mondo è brutto. Abbiamo bisogno di occhi morbidi, che sanno adattarsi
al contesto, flessibili, freschi. Solo occhi così sanno entrare in risonanza
con il mondo circostante, sanno empatizzare con ciò che c’è intorno. Questa è
una educazione dei sensi. Noi contattiamo il mondo esterno attraverso i nostri
sensi. Se i sensi sono atrofizzati o irrigiditi, questa è l’immagine del mondo
che ci danno, un mondo freddo, grigio, duro, competitivo, violento. Quando gli
occhi si fanno morbidi, rilassati distesi e nello stesso tempo acuti, capaci di
guardare lontano e vicino; quando sanno unire queste qualità femminili della
morbidezza insieme con le qualità maschili della direzionalità, dell’intenzione,
della concentrazione, allora i nostri occhi diventano gli occhi dell’anima... Possiamo
diventare chi siamo se siamo coscienti di abitare dentro un corpo fatto di
sensi e sensazioni; se ci prendiamo cura di questa dimensione terrena di sensi
e sensazioni come di un viatico per il cielo, per l’espansione della coscienza.
Mi abbandono alla terra, trovo rifugio e ristoro nel femminile che mi fa
sentire accolto; riprendo forza e riparto verso l’alto con un retto sforzo.
Tutto questo significa stare seduti, tutt’altro che qualcosa di passivo. Col
tempo questa pratica diventa sempre più piacevole al livello fisico. A livello emotivo
dona felicità, a livello mentale lucidità del pensiero. E ci dà gioia a livello
spirituale via via che il cuore abbandonando le contrazioni, le tensioni, le
resistenze finalmente si apre al mondo e a noi stessi. Quando questa pratica
diventa il nostro rifugio dove ci ritiriamo per provare piacere, felicità,
chiarezza e gioia incondizionati, non dipendenti da nulla, allora da quel
momento possiamo dire di essere sovrani, re e regine e nello stesso tempo
possiamo dire di essere genitori, capaci di generare, di creare cose nuove,
forme nuove, non solo biologicamente ma a livello biologico, fisico, energetico,
emozionale, psichico, intellettivo e spirituale. Quando questa pratica si diffonderà
di più, quando cominceremo a provare ristoro nel farla, allora il mondo attorno
a noi cambierà. La pratica è il gesto di adattarsi alla curva vitale che, come
le onde del mare, alterna tensione, picchi, verticalità a distensione, rilascio,
abbandono, non controllo, lascio andare, basta. Distacco. Quando siamo dentro
la logica della vita allora stiamo nella verità. Non diciamo la verità ma siamo
veri e possiamo vedere la verità fuori di noi, possiamo vedere l’armonia, la
bellezza in ogni persona. E quindi
sappiamo distinguere con chiarezza, l’anima di una persona, da ciò che è
semplicemente falso, fasullo, contrario alla logica della vita. Possiamo vedere
le sue difese egoiche senza farle nostre, senza difenderci a nostra volta. Possiamo provare
compassione verso le difese dei molteplici io che nuotano nella paura, nella
collera, nella dipendenza, nella reattività, nel risentimento di una tristezza
infinita di una vita mal condotta.
giovedì 9 novembre 2017
Il serpente
Il serpente disorienta l'istintiva capacità di distinguere tra vivente e cosa inanimata, tra potenziale predatore e situazione innocua. Il caso del serpente costringe la percezione ad interrogarsi. Quella cosa è davvero un serpente oppure sono incapace di intendere le cose e rischio di cacciarmi in un rovo di rettili?
giovedì 19 ottobre 2017
Un dolore sopportabile
Una scelta ha tante ragioni ma nessuna di esse
determina la scelta stessa. Il principio determinante di una scelta è il gusto,
o un certo sentimento del tempo, per dirla con un filosofo e con un poeta.
La supposizione di una ragione, di un principio determinante
oggettivo alla base di una scelta, poggia sull’idea errata della scelta come
algoritmo, sull’idea impossibile di una visione onnisciente, su una fantasia di
calcolo totale delle opzioni da cui depennare quelle non eleggibili tanto da
ricavarne un’unica restante che sola risponderebbe a un certo requisito. Ma servono
i numeri per contare o serve l’atto intelligente di contare per maturare la
consapevolezza del numero?
Prima serve contare, serve distinguere uno da molti, riconoscere il tratto unitario in un certo profilo d’esperienza, sentire che nessuna persona vale l’altra. Poi vengono i numeri, viene il criterio, ossia il requisito dell’oggetto scelto. Ma prima viene l’oggetto. È il sorgere alla percezione dell'oggetto che segnala i suoi requisiti. Non è l’oggetto da solo che viene per primo ma è dall’aurora dell’oggetto in un soggetto che emanano i segnali elettivi, le istruzioni di scelta dell’oggetto a qualcuno che le sappia intendere. Solo quando l’allievo è pronto, il maestro compare. Solo quando si attiva il soggetto, l’oggetto compare. Ed è poi l’oggetto stesso che insegna i modi della sua cura mondana, la forma delle sue nascite, delle sue vite, delle sue tante morti. Est modus in rebus può significare anche questo: come nel giudizio riflettente la specificazione inessenziale precede la determinazione dell' essenza.
Prima serve contare, serve distinguere uno da molti, riconoscere il tratto unitario in un certo profilo d’esperienza, sentire che nessuna persona vale l’altra. Poi vengono i numeri, viene il criterio, ossia il requisito dell’oggetto scelto. Ma prima viene l’oggetto. È il sorgere alla percezione dell'oggetto che segnala i suoi requisiti. Non è l’oggetto da solo che viene per primo ma è dall’aurora dell’oggetto in un soggetto che emanano i segnali elettivi, le istruzioni di scelta dell’oggetto a qualcuno che le sappia intendere. Solo quando l’allievo è pronto, il maestro compare. Solo quando si attiva il soggetto, l’oggetto compare. Ed è poi l’oggetto stesso che insegna i modi della sua cura mondana, la forma delle sue nascite, delle sue vite, delle sue tante morti. Est modus in rebus può significare anche questo: come nel giudizio riflettente la specificazione inessenziale precede la determinazione dell' essenza.
Porre una ragione determinante dietro alla scelta è la
mossa teorica dettata da una emozione che invisibilmente cresce in dittatura,
in una istituzione di cui si è tanto meno consapevoli quanto più lungo è il
tempo che ci si è stati dentro: la paura di aprire la porta alle correnti
della vita. Il contrappeso che riporta in paro il bilanciere inclinato dalla
paura non è nelle fronde lucenti del coraggio ma nelle radici umide e oscure
della umiltà. L’umiltà è capace di ammettere che all'interno di quella porta
l'aria è poca. È l’umiltà, il suo intuitivo attaccamento alla terra, che ci fa
accorgere che non è un sonno fisiologico la ragione che non ci fa alzare dal
divano per cambiare aria ma è l’aria viziata e satura di gas tossico. Senza umiltà
prevale l'arroganza, l’ignoranza che eleva il metodo induttivo a funzione di
verifica di un enunciato universale. Ma una generalizzazione non diventa vera
adducendo un caso particolare. Proseguendo la ricerca, frequentando con continuità l’osservazione della
realtà, emergono sempre, prima o poi, casi contrari.
"Un codardo muore meno di un
coraggioso" non è affermazione che metta a riparo un vigliacco dalla morte.
Non è che un vigliacco non muore se, per evitare di farsi sconvolgere
emotivamente dall’urgenza di cambiare aria alla stanza della sua mente, se ne resta sul
divano a contare le pecore delle opzioni possibili.
Un criterio di scelta non dovrebbe essere subordinato
alla conclusione, ai risultati, ai frutti della ricerca. Ciò che verrebbe ad
essere davvero scelto non sarebbe così l’oggetto della scelta bensì l’atto di
interrompere la ricerca. Si sceglierebbe l’uscita dal campo di gioco come
strategia per accreditare il valore del gioco. Invece di imparare a guidare si sceglierebbe
di lasciare nel garage della propria testa quel veicolo che è troppo difficile
da guidare, quella scelta che è troppo sfuggente al controllo. In effetti non
si sceglierebbe niente se non il trucco con cui facciamo finta che niente sia
qualcosa, che scegliere sia risolvere
una equazione, che abbia a che fare con una qualche deduzione, con certezze inconfutabili.
Pregiudicandoci inidonei a vivere il disagio di non
vederci bene (ma anche sedotti dall’offerta analgesica dei paradisi esotici del
non sentire e regrediti allo stadio dell’inettitudine neonatale per cui al
primo sentire reagiamo come a un dolore insopportabile) rifiutiamo gli occhiali,
e, per compiacere il vitello d’oro della vanità, per blandire il predatore delle
nostre fantasie di realtà, del nostro regno di ragni e di sogni, ci attestiamo
su livelli di percezione dai quali la prima cosa che sembra non esserci più
siamo noi stessi, quella nostra fisionomia unitaria e unica, il nostro non
essere un numero ma persone capaci di contare, di avere i propri gusti, il proprio
sentimento del tempo, i propri desideri. Allora svendiamo l’idea di ricerca
come sperimentazione per prova ed errore (e più sono gli errori migliore è la
ricerca) con l’idea di ricerca come osservazione pura, imparziale, distaccata e
inattaccabile dalle cose che osserva.
Autosomministrarsi il questionario del perché di una
scelta (di una propria scelta personale e non di una qualunque scelta
commerciale sul cui calco troppo spesso improntiamo ogni nostra scelta che invece
ha senso solo se assoluta e non omologabile) significa disconoscere alla
nozione di scelta ciò per cui essa fa di un individuo ciò che è in ragione
della storia unica delle sue scelte. Significa mettere sotto sforzo l’idea
stessa di riflessione abusandone allo scopo di rendere reversibile
l’irreversibile del tempo che passa. Mettere in pausa la propria storia non è
impossibile. Ma per farlo non possiamo metterla da parte come fosse l’ultima
prelibata fetta di torta al lampone e nocciola.
Squarcia piuttosto la tela del finito. Lascia che la
luce dell’infinito lo inondi. Non restare in banchina a guardare le navi che salpano
senza mai prenderne una. Puoi ammettere a te stesso che non è una nave quella
su cui ti trovi ma è la chiatta del paterno ostello e la scelta che hai fatto è
quella, ardita, di salpare nella vasca di casa? Altrimenti saremo per sempre degli
stupidi salmoni che tentano rovinosamente di risalire un torrente asciutto la
cui corrente amniotica da cui erano nati ora scorre altrove.
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