Presentazione dell’Atto creativo in Baudelaire, 31 gennaio 2013
Roma - Palazzo Sora Fieschi. Editore Marco Solfanelli
Relatori: Emerico Giachery, Gianluca
Valle, Floriana Scarcia
Letture: Donatella Ferrara.
Approfitto
della compiutezza delle relazioni che mi hanno preceduto per concentrarmi su un
tema che mi sta molto a cuore, anche se nel libro è presente solo
indirettamente: il tema della felicità.
La
felicità è un argomento di cui spesso si ha vergogna, come fosse una cosa poco
seria. Cercherò di rendere visibile la filosofia invisibile e per lo più
inconsapevole che sorregge questo inopportuno pudore.
Le due
diverse modalità di atto creativo in B. non corrispondono a due diversi io in
competizione ma a strati diversi, a diverse altezze di una medesima esistenza
personale. La contesa che dilacera B., infatti, non è tra i diversi ordini
gerarchici del soggetto ma è interna al livello inferiore di questi, a quel
livello che, creando, si aliena da se stesso, si disconosce sempre più, poiché,
a guidarlo, non è il giudizio libero ma una sorta di meccanica impersonale, di
dinamica senza anima: l’ansia di non aver ciò che si vuole e l’incapacità
isterica di apprezzare ciò che si ha. Il piano basso della soggettività, per
rimediare alla propria pena, si costruisce un mondo ideale parallelo, astratto e
senza tempo, nei cui cristalli minerali trova rifugio da quel mondo reale
organico e deperibile alla cui consunzione dolorosa non riesce a tener testa se
non con la fuga. Il rimedio dal male però è fittizio, inefficace e risospinge
B. sulla cresta di un agire molto frustrante perché non costruisce benessere,
accrescimento, espansione ma mera coazione a ripetere, coazione che lo incatena
sempre più alla sadica giostra che ora lo innalza su vette da sogno ora lo precipita
in valli di miseria.
Lo strato
più alto dell’esistenza personale, quello in cui s’incontra l’unicità assoluta
e irripetibile della propria essenza individuale, è quello da cui emanano gli
atti creativi che ho chiamato atti fenomenologicamente
vissuti e che sono finalmente atti liberi e personali. In che rapporto sta
questo piano superiore e più maturo dell’essere con il dolore? Lo abbiamo
appena letto nel sonetto Semper Eadem.
Chi si aspetta che la gioia non finisca, chi vorrebbe annullare il tempo, è
ignorante, come uno che pretendesse di essere Dio. Ignorante è dunque l’azione
che muove dal piano della soggettività illustrato prima. Questo piano basso
della soggettività pretende che la felicità sia una condizione permanente e la
interpreta come un oggetto ideale, come una costruzione geometrica astratta e
indeperibile, come una forma vuota e fuori del tempo e dello spazio che ha nel
mondo solo copie imperfette che le incutono terrore e fobia. Nelle parole che
Socrate pronuncia, nel Fedone di
Platone, mentre viene liberato dalle catene per essere preparato alla morte,
troviamo espressa la consapevolezza tipica di questo strato più alto
dell’esistenza personale:
«Socrate, sedutosi sul letto, tirò su la
gamba e si mise a strofinarla con la mano e, mentre la massaggiava, disse: “Che
ben strana cosa, miei cari amici, sembra esser questo che gli uomini chiamano
piacere! E come meravigliosamente si trova per natura in rapporto con quello
che sembra il suo contrario, il dolore! L’uno e l’altro si rifiutano di
trovarsi insieme nell’uomo, ma, d’altra parte, se se ne insegue uno o lo si
prende, ci si trova costretti a prendere sempre anche l’altro, come se fossero
attaccati ad un unico capo, pur essendo due”…».
Questa
qualità unitaria e non dualistica della consapevolezza, quale la evinciamo dal
brano platonico, non si dà tuttavia dalla nascita. Tale capacità inclusiva e
comprensiva è una possibilità, ma una possibilità che può rimanere intentata e
minacciare il senso della vita. Quando ci si domanda se la propria sia una vita
felice ci si chiede, in fondo, se si stia almeno tentando di attingere a un
piano di vita che non sia solo biologico. Quando ci si chiede che senso abbia
la vita sullo schermo di questo interrogativo spesso angoscioso, si può
scorgere una porta o un muro, una prospettiva o una superficie piatta. Nel mio
libro ho cercato di richiamare l’attenzione sul fatto che questo “scorgere” nella
vita un’apertura o una chiusura, un senso o un non-senso, non è un evento
naturale al di là della forza umana. Tale “scorgere” nel mondo in cui siamo
linee di fuga invece che orizzonti interrotti è un atto personale, un movimento
soggettivo o, più precisamente, un moto inter-soggettivo e dunque politico. Il
fatto di vedere o di non vedere un valore nella vita non è una questione innata
di carattere per cui uno nasce ottimista e l’altro pessimista e sono fatti
suoi. Avere o non avere valori non è un affare individuale perché l’io, almeno
nel senso d’individuo-persona, è impossibile senza un tu. («Nessun io senza un
tu», diceva Jacobi.) Detenere un io senza avere la consapevolezza della sua
provenienza dal tu comporta inevitabilmente un abuso dell’io che, afflitto, come
dire, da ipertrofismo, non può apprendere ad usare la libertà e ne finisce
usato e schiavo. Quali sono le tracce di quest’abuso dell’io?
Una
traccia di questo abuso è proprio nell’idea che ci si fa della felicità come
condizione permanente. Concepire la felicità come cancellazione del tempo,
ritenere che essa in fondo non esista perché non dura, significa non
considerare che un aspetto essenziale della felicità è il ritmo, che un suo
elemento necessario è l’intervallo minimo, la sapiente sospensione, l’epoché,
come diceva il prof. Valle, quel deficit minimo di contrazione, di allentamento
della presa, che, consentendo la decontrazione, dà luogo al pulsare
dell’esistenza, al suo respiro. Pensiamo alla Creazione di Michelangelo nella
Cappella Sistina, all’energia che si sprigiona in quello spazio che separa e
congiunge le dita del Creatore da quelle di Adamo. La felicità è questa sincope
gentile, un equilibrio agile perché instabile, non una condizione permanente. È
quello stacco che, consentendo la prospettiva, apre la vista e rende visibili
porte laddove si scorgevano solo muri senza uscite. La felicità è la capacità
di cogliere valori, di impegnarsi pazientemente nella valutazione della
finitezza. Non bisogna interpretare la felicità solo come soddisfazione, come
un riempirsi la pancia. La felicità va interpretata come ascesa. La vetta
impervia da scalare, da vincere, è il dolore, non quello auto-procurato da
lotte intestine e distruttive, ma quello vero e inevitabile della vita. «L’uomo
è felice – dice Nietzsche – non quando è sazio, ma quando è capace di vittoria».
Vincere
se stessi, imparare a rialzarsi in fretta dalle cadute, rafforzarsi attraverso
la sofferenza e apprendere a tenerle testa nei combattimenti quotidiani fa
della felicità qualcosa che non è neppure più un vissuto, uno stato della mente,
ma una pratica. La felicità così intesa, per dirla con Salvatore Natoli, è «l’arte
del ben vivere che genera soddisfazione», è «esercizio», è «virtù». Essa, in
qualche modo, è anche disciplina. B., attraverso la regolare attività di
disciplinare poeticamente il proprio rifiuto della realtà, documenta quanto
abbia davvero cercato di umanizzarsi, quanto egli abbia cercato di viversi come
un io che è tutto fuorché un’esperienza solipsistica. La cura poetica del proprio
dolore, seppur fosse scevra da finalità filantropiche come lo accusava
ingiustamente Sartre, va a correggere la brutalità della sofferenza vissuta
nell’isolamento e va ben oltre gli angusti confini della contemplazione narcisistica. B., in realtà, nonostante le apparenze,
fu un maestro di felicità. La sua poesia «ponendo le condizioni per rivivere
una sofferenza vissuta, quasi fosse un vissuto non proprio, va a surrogare
quell’altrui comprensione di se stessi senza la quale nessuno potrebbe farsi
un’esperienza personale». La poesia di B., in altri termini, «rende forse
possibile ciò che E. Stein chiama “simpatia riflessiva”, l’idea secondo cui la
mia originaria esperienza vissuta torna a me empatizzata» da un altro.