venerdì 28 febbraio 2014

...attaccatevi al bene

Da anni cerco di familiarizzarmi con quelle idee che, strada facendo, mi sono sembrate le più affini al mio passo, le più utili a sostenere la mia prosecuzione, a conoscere me stessa. Queste idee hanno rappresentato per me l'acquisto di organi cardiaci supplementari che la vita mi offriva oltre a quel cuore datomi alla nascita. Infatti esse scandiscono un ritmo che sovente ha rimesso a regime quello del cuore natale che si era smarrito.
Tra di esse tre: l'idea normativa degli Yogasutra, santosa, cioè la pratica di essere paghi, la postilla tantrica che non il piacere ma l'attacamento ad esso sia la cuasa della sofferenza e quell'idea, sempre orientale, per la quale niente fuorché il presente sia reale, che io chiamo ontologia del presente.
Sto cercando di prendere delle abitudini. A differenza di chi è abitudinario e che ha visto sgretolarsi sotto il macigno dell'abituazione la percezione stessa di ciò che sempre faceva e continua a fare, quando riesco a ripetere per un numero sufficiente di volte qualcosa tanto da poter pensare di cominciare a concepirla come una mia abitudine, sento il tepore di una vaga felicità sorgere all'orizzonte semi-artico del mio umore. Ma non è forse questo indice di attaccamento? Il segno che sia esattamente non quello che faccio ma il fatto di ripeterlo a darmi gioia?

lunedì 10 febbraio 2014

Prima del tramonto

Un' onda di miele sta avvolgendo la mia luce. 
Rapidamente la satura.
E imbeve di chiarore le caverne spugnose del buio.

Una ventata d'ambra, e hai sollevato le palpebre gonfie di sonno delle mie cellule,
di quelle mille e mille celle d'alveare che ogni volta dimentico.
Poi le hai intinte di te, del tuo volume, le hai rivestite con la stoffa luccicante
di una calda notte passata a passeggiare al porto.
Ma già devo accendere le candele perché ti sei fatta ghiaccio.
E ora stiletti impunita.
A domani, mia cara, ritorna!

Troppo presto non tornare,
luce della sera
che presto te ne vai.

mercoledì 5 febbraio 2014

Il compasso da John Donne


A Valediction: forbidding morning

Come quieti dipartono gli onesti
Sottovoce dicendosi che è l’ora,
Mentre commentano alcuni amici mesti:
— Va via il respiro—, ed altri: —non ancora—,

Lasciamoci così, sommessamente,
Senza di pianto e di sospir tremore.
È profanar gioie che ognun di noi sente
Il rivelare al mondo il nostro amore.

Tremor di terra fa paura e disastri,
E sul suo senso l’uomo fa domande,
Ma la trepidazione che han gli astri
È innocente benché tanto sia grande.

Nei rozzi amanti sublunari amore
—La cui anima è il senso — non regge affatto
L’assenza, che è il pericolo maggiore
Delle cose di cui esso è stato fatto.

Ma noi, dall’amor così raffinato,
Che neppure noi ne conosciam l’essenza,
La mente resa certa del suo stato,
Men d’occhi, labbra e mani urta l’assenza.

Le anime nostre nella loro unione,
Benché io debba partire contro voglia, Non avvertono frattura, ma espansione,
Come oro che battuto si fa sfoglia.

Son due, ma così come nel compasso
Due sono anche i gemelli austeri: e dove
Sembra non fare la tua anima un passo,
Piè fisso è e all’altro teso, se si muove.

E benché essa rimanga nel suo centro,
Mentre l’altra più lontano si spinge,
Si inclina, la richiama e aspetta il rientro
Tornando eretta se a rientrar si accinge.

E per me, cui in oblique vie andar pertiene,
Simile all’altro piede, andar spedito,
Sei il punto fermo, e il cerchio chiude bene,
E fai che io torni dove son partito.


Ho conosciuto questa poesia quasi trent'anni fa durante una delle incantevoli lezioni di Dorotea Medici, professoressa straordinaria cui va la mia interminabile riconoscenza. Ricordavo, sbagliando, che si intitolasse il compasso. Ma come un compasso mi si è conficcata dentro.