domenica 12 settembre 2010

L'ulivo di Rosina

Rosina, a sette anni, era agile e ovviamente piccola. Verso le due, dopo pranzo, riempiva dal lavello del bagno la sua bottiglietta di acqua fresca, se la infilava nel tascone profondo dietro la schiena – tipo maglietta dei ciclisti ma di un cotone ammorbidito e stinto dall'uso – e se ne scendeva sottocasa per entrare tra le fronde del suo vecchio ulivo. Per lei era più facile che salire le scale e ci si muoveva con una confidenza tale da far pensare che tronco e rami facessero tutt'uno col suo corpo di bambina invaghito della sua stessa agilità. Seguiva una sequenza di mosse diventata il suo protocollo di accesso all'albero, il suo rito di saluto: dapprima lo scalava fin su la vetta, ovvero inerpicandosi sul tronco più estremo che ancora la poteva tenere – proprio là dove gli uccellini e le formiche, di contro a lei, detenevano il privilegio dei ramoscelli più alti, pennacchi di fogliame appena trattenuti dalle grinfie del vento su rametti tipo lische di sardina. Poi ridiscendeva subito al piano centrale come se la montata in cima non fosse servita da avvistamento dello spazio quanto da avviso a questo della sua presenza. Allora si soffermava qui e, come fosse una lancetta dei minuti, nel giro di pochi istanti, roteava su se stessa per riempirsi gli occhi di tutte le 360 prospettive dei gradi dell'angolo tondo. Aveva trovato il sistema di sedersi sul punto di convergenza alla base dei rami e qui di fare perno con le manine, rette da polsi forti e sottili, per ruotare completamente, sforbiciando le gambette a cavalcioni dei raggi di ramo che incontrava girando. La sua girandola era più o meno rapida a seconda dei giorni, più o meno regolare, fluida sincopata, incerta, svelta, abile o impacciata. Quindi la ripeteva fino alla direzione che avrebbe imboccato e poi partiva. Poteva andare a sdraiarsi sul letto ricavato da un'ala del legno particolarmente comoda, puntare allo sgabello per bersi l'acqua mentre i piedi, senza toccar terra, penzolavano proprio come nella cucina di casa. Poteva sedersi sul tronco ad elle senza corteccia, liscio liscio, identico a una sedia dallo schienale troppo eretto per ponderazioni facili o adagiarsi invece sulla sdraio di un bel tronco piatto e inclinato, catapulta verso sogni a occhi aperti, verso pisolini iper-reali di mamme buone che ti coprono e che ti risvegliano al profumo della schiuma per il bagno pronto, della lavanda dei vestitini, del latte bollito. Poteva infilarsi nell'incavo antipioggia o andar più dentro, nella caverna a prova di tormenta, dove però non si entrava che carponi. C'era l'anta delle olive, da dove allenare la mira per il lancio delle stesse in bassura, e il ramo-altalena, la bilancia, lo scivolo, la molla, lo yo-yo, la spalliera svedese, l'osservatorio a feritoia, il megafono, il pulpito, l'amaca, il trampolino, l'avamposto del vento, del sole, dell'ombra. Il tronco era uno ma i rami erano tanti, come tanti erano i suoi amici.
Un giorno il giardiniere amputò il letto che si era ammalato: una coccinella, bella solo per far rima e difatti brutta, senza i pois neri sulla veste rossa, se lo era rosicchiato tutto a forza di impiantarci dentro le sue uova, uova che, a loro volta, poverette, erano state depredate da un verme che ne andava ghiotto ma la cui stirpe, presto, finì anch'essa sterminata dal colesterolo andando a nutrire quel fungo infestante che aveva orribilmente maculato il letto di Rosina infradiciandolo fino all'osso. Rosina se ne dispiacque ma continuò a frequentare il suo ulivo. Non poteva più dormirci ma avrebbe provato ad usare come letto la sdraio o altro luogo. Riuscì così a riadattarsi alla situazione e il dispiacere, apparentemente, dileguò, almeno a giudicare dalla speditezza con cui ruotava la giostra del suo speciale saluto. Quando i giorni tristi dell'amputazione del ramo-letto già sembravano non essere mai esistiti, un nuovo ramo se ne andò, e questa volta da solo, senza neppure l'incalzare della tempesta. Era una perdita, se paragoni son mai leciti, più grave della precedente. A venir giù era stata l'intera "ala-intemperie", "cava antitormenta" inclusa. Ma gli ulivi sono alberi strani. Più che di rami sono fatti di rotolini di corteccia che, per qualche secolo, invece di aprirsi, decide di star stretta su di sé, compatta come un blocco di cilindro. Quando il trascorrere del tempo ne indebolisce l'abbraccio essa si riapre, si fa rotolo di pergamena appena letto e coi riccioli ancora rigirati. Per questo l’ala cadde. Ma anche se gli ulivi fossero alberi non strani comunque accadrebbe e "perché" accada è uguale a "come" accada, di entrambi poco interessa. Interessa solo che dopo l' accaduto non si possa star più dentro quell’essere che l’accadere ha portato via. E ci si riadatta. Il giorno arrivò in cui Rosina si ritrovò seduta sul solo tronco dal quale ormai nessun ramo non diramava più. Faceva ancora la sua girandola, senza sforbiciate delle gambe però – i raggi del resto non c’erano e così neppure c'era più il bisogno di levar le gambe. Ruotava, nuotava, vorticava veloce come un fuso fino a quando sul finire di un'estate più lunga delle altre si conficcò nell'osso del ciclone e se ne fece midollo.


venerdì 10 settembre 2010

Big Mama

Mattina eccitata
per le foglie del bosco.
Dimenano i fianchi
lente.
Cavalloni marini
in calda tempesta.

Big Mama
all’alba del giorno di Natale
fa l’amore sotto le coperte.
E' un rinoceronte nel fango.
Ride e sveglia tutti.

Compagno di trincea
che ansimi
chinato sulla terra.
Il tuo affanno, forse il mio.
Soffocata da strati di giorni senz’acqua
puzza la pelle
di sudore rappreso.

Lingue di spavento liofilizzate
alitano come una latrina estiva
in questa lunga
fossa comune
schierata contro il nulla.

Andiamo via, spostiamoci solo poco più in là
dove l’aria è baciata dal muschio
e le foglie solleticate dal quel connubio dolce .

Roma, primavera 1998

Nietzsche e Pasolini

Sia Nietsche sia Pasolini colgono nella dimensione corale un serbatoio di valori al quale attingere per ridare vitalità ad un tessuto umano sempre più sterile – il «coro» della tragedia greca per il primo, la vita di borgata per il secondo. La vita di borgata ha come teatro i cantieri, gli sterrati piuttosto che gli appartamenti bene in cui i borghesi si trincerano dalla vita violenta della strada.

Al contrario di quanto forse vorrebbe il senso comune, la coralità in questi autori non è sinonimo di omologazione ma è la sede più propria di quella forza d’insieme che sola è capace di infondere vigore alle singole esistenze. Tanto Nietsche quanto Pasolini, con le espressioni «gregge» ed «omologazione», marche tipiche del loro lessico, denunciano le degenerazioni della vita associata. Entrambi, tuttavia, muovono l’accusa da posizioni teoriche che proprio nella vita associata pongono il nucleo dell’essenza umana: l’uomo è il risultato della qualità delle relazioni che intrattiene con altri. È impossibile essere uomo al di fuori di questo incontro. Ma la qualità deteriore degli incontri che ci è poi dato di osservare nei fatti costringe amaramente a considerare che è impossibile “diventare” uomo insieme agli altri uomini.

Di qui l’elaborazione di formule culturali non solo originali ma così tanto controcorrente da essere incorse, per tutti e due, in quel destino d’incomprensione comune a tanti profeti. Sulla base di queste note non risulterà affatto inedito introdurre la figura di Socrate, anche lui disconosciuto dai contemporanei e condannato a morte per empietà.

L’Apologia di Socrate è l’emblema di un potere prevaricatore che ha ucciso un uomo ma non è riuscito ad uccidere le sue idee, di un potere stolto che ha saputo opporre la sola bruta forza fisica a quell’invincibile forza della ragione che ne denunciava l’ingiustizia.

Con essa si afferma un’etica della conoscenza razionale fondata sulla fiducia nel ricorso al quel tribunale dell’intelletto che solo Nietsche, dichiaratamente, riuscirà a smascherare come fallibile ed ancor più, come il primo responsabile della decadenza della nostra civiltà.

La "memoria involontaria" in Proust.

La memoria involontaria non trova la ragion d’essere della sua felicità nel recupero di un incontro vissuto nel passato al quale virtualmente si torna come nelle meravigliose finzioni della rimembranza leopardiana. Essa non muove dalla ricerca di una felicità perduta quanto da quella di un tempo andato proprio perché vissuto nella disattenzione. Un tempo di cui la memoria involontaria ci risarcisce come tappa apposta dopo sul buco creatosi nel tessuto della vita per via di una delle tante fughe di essa. E proprio quando al passato non si pensava più, proprio in questo intervallo di leggerezza datoci dal beato dimenticare, in questo frangente di plasticità affettiva e disponibilità siamo nella condizione di poterci far stanare dal tempo e lasciarlo irrompere in noi come quella piena altrimenti paventata, come quel naufragio nel mare delle percezioni che, grazie alle nostre mutate condizioni interiori, può farsi dolce. Ma cosa è mutato in noi per aver consentito questo? Una deviazione che, staccatasi dal nucleo degli accadimenti passati, ha virato verso gli abissi del presente.

"La Novità di Ognuno" - Roberta de Monticelli, appunti

p. 158 e sgg.

Una decisione è
  • determinata in quanto è fondata su un motivo (movente per Tommaso, ragione per Leibniz, legge per Kant). Ha cioè una sua determinatezza.
  • non causata in quanto non è deterministica. Non ha invece determinazione

I compatibilisti fanno indebitamente passare una teoria della deliberazione per una teoria della volontà. L'autrice ne illustra le differenze.
    La deliberazione  è un atto della razionalità (modello classico)  che determina in base a credenze e desideri (informazione e preferenze) una certa conclusione e cioè un motivo possibile o giudizio pratico che può essere:
  • una mera possibilità pratica 
  • un valore
  • un dovere
    La volontà è un atto che liberamente prende posizione in senso affermativo o negativo

mercoledì 8 settembre 2010

Ipse dixit

Si vivi vicissent qui morte vicerunt - Cicerone
(se fossero stati vittoriosi in vita coloro che hanno vinto in morte)

Ad gloriam non est satis unius opinio - Seneca
(per la fama non basta l'opinione di una sola persona)

Immobilità: esercizio

Esercitarsi a stare immobili, svolgere cioè l'esercizio dell'immobilità fisica, permette di accedere alla percezione dell'impercepibile. Esecuzione: si prenda una clessidra che misuri un tempo né troppo lungo, né troppo breve, cinque, dieci minuti, di più solo per praticanti esperti; si assuma col corpo una posizione che non sia di riposo, ovvero che sia sostenuta da un impiego intenzionale e volontario dei muscoli - lo yoga ne fornisce un ampio repertorio. Individuare con attenzione e accuratezza tutti gli organi che non contribuiscono attivamente alla fisionomia della forma assunta e rivolgere loro l'intenzione di rilassarli. Infine guardare la clessidra e concentrarsi sul "rumore del tempo" provocato dalla colonna semovente di sabbia che, svuotando l'emisfero superiore, si conficca instabilmente nel vertice franante del cono di polvere crescente. Guardare con attenzione fino all'istante in cui la sinestesia prenda il sopravvento e la vista diventi udito, gli occhi vedano il suono, e l'orecchio oda il tempo.