giovedì 24 aprile 2014
Fedeltà?
Il delta che aspetta il suo torrente nel frattempo leva una diga a ogni altro corso (Salvatore Natoli)
venerdì 18 aprile 2014
Presentazione dell’Elogio della Filosofia di Merleau-Ponty
Presentazione dell’Elogio della Filosofia di Maurice Merleau-Ponty
Roma, 15 aprile 2014
Aula Magna del Liceo Gelasio Caetani - Roma
http://www.edizionisolfanelli.it/elogiodellafilosofia.htm
Non c’è un io, non c’è un soggetto esterno al mondo capace di una presa obiettivistica, ma un corpo vivente «che non ha bisogno di uscire da sé per raggiungere le cose stesse: egli è interiormente sollecitato e assillato da esse». Questo corpo è il medium in cui si costituisce il rapporto tra soggetto e oggetto, tra io e mondo; è un universo di «promiscuità», di «latenza», di «sostituzioni», di «inversioni», di «scambi tra anima e corpo, tra io e l’altro, tra il presente e il passato, tra l’immaginario e il reale». E questo rapporto è il ritratto del rapporto che il filosofo ha con l’essere: non il «rapporto frontale che ha lo spettatore con lo spettacolo» ma «una sorta di complicità, una relazione obliqua e clandestina», un «rapporto ossessivo» con qualcosa che «è là, davanti a noi, e tuttavia ci raggiunge dal di dentro». Non appena cerchiamo di oggettivare l’essere, di porlo di fronte a noi, di razionalizzarlo, quello riprende mostruosamente a sgorgare da dentro di noi fino a sommergerci, a travolgerci ma anche ad accoglierci e a sostenerci. Così, per un verso ci pare di coincidere con esso, di non esser altro che muta inerenza; per l’altro, quando attraverso di noi l’essere si rivela, scopriamo che «ciò che si riteneva essere coincidenza è coesistenza», cioè un rapporto ben più articolato di azione reciproca. Lo spirito incarnato nel corpo «non è più l’indivisione pura» ma «’lo sforzo di raccogliersi’ tra i due limiti del ricordo puro e dell’azione pura», lo sforzo cioè di restare immersi nella percezione – una «lettura di cui siamo capaci perché portiamo incarnato nel nostro essere l’alfabeto e la grammatica della vita». La percezione è la «condizione umana» stessa e, in quanto tale, non si può abbandonare. Essa è «il sapere assoluto del filosofo», è il luogo originario in cui accade il mondo, il filo conduttore che apre il nostro esserci all’alterità. Così come «l’espressione si compie solo rinunciando a coincidere con ciò che è espresso» e così come «la filosofia ha a noia il già costituito», allo stesso modo nella percezione il toccato e il toccante coesistono senza coincidere. La pelle e il tessuto carnale sono metafora della comune appartenenza di io e mondo. L’immagine del corpo capace di sdoppiarsi esemplifica la condizione stessa dell’esercizio filosofico, cioè il distacco, l’epoché. Ora vi invito, mentre leggerò queste poche righe, a sperimentare su voi stessi l’azione che qui viene descritta. Dovreste dotarvi di un qualcosa da tenere nella mano destra. E potrei scommettere che 8 su 10 avranno in mano il telefono!
I fatti sono forse noti ma qual è il loro significato, qual è la loro verità? Quel bacio era uno scherzo, un dispetto, una vendetta, con che intenzione si sono baciati? Hanno pensato alle conseguenze oppure se ne sono infischiati? O forse l’attrazione era irresistibile? O forse lo hanno fatto per superficialità? Merleau-Ponty ci dice che la verità è una nozione della quale possiamo disporre non prima del rapporto con gli altri ma grazie al rapporto con loro. Per questo stesso motivo troviamo scritto in questo testo che Socrate preferì la condanna a morte all’esilio perché «pensava che non si può essere giusti da soli, che esserlo da soli equivale a cessare di essere giusti». Questa cosa la credeva anche Aristotele a proposito della felicità, che essa non ha senso senza amici.
Ma per convincerci ulteriormente riguardo alla natura sociale della verità e quindi del senso delle cose pensiamo a quel film, Into the wild, lo conoscete? Chi lo conosce? Mi riferisco all’episodio in cui il ragazzo, che cerca di sopravvivere da solo in una natura selvaggia, raccoglie una bacca, la mangia e muore avvelenato. La conoscenza che aveva della bacca non era una conoscenza veritiera. Ancora vediamo che la nozione di verità è legata al nostro rapporto con gli altri, anche se la presenza degli altri non è che un lascito di competenze botaniche, un patrimonio culturale di conoscenze indispensabili a vivere. Senza la nozione di verità l’essere umano non può vivere. A differenza dei vegetali, degli animali e dei minerali, l’essere umano per esistere deve conoscere la sua esistenza, deve cioè confrontarsi con la questione della verità. Ora capiamo meglio perché Merleau-Ponty ci tiene a spiegare che la verità non è qualcosa di prestabilito e neanche un risultato ma è qualcosa che sta sempre all’inizio, che sempre dobbiamo cominciare a fare, che è cioè incoativa. Oggigiorno passiamo molto tempo della nostra vita a simulare la verità davanti al computer. Le simulazioni non sono un male di per sé. Lo sapete bene quando fate le simulazioni delle prove di maturità. Sono esercitazioni importanti ma non corrispondono alla verità. Per quale motivo?
C’è una differenza fra il pensare/immaginare/sognare/sperare di fare un esame e il farlo davvero. La differenza sembra nota a tutti, sembra lampante ma in effetti a poco poco noi andiamo perdendo il senso pulsante di quella differenza perché comunque la virtualità ci emoziona, ci smuove dentro, sembra che ci faccia sentire vivi lo stesso. Merleau-Ponty ci aiuta a rinfrescare il senso di questa differenza tra virtualità e verità: egli mette in risalto il fatto che nella virtualità le cose non sono vere soprattutto perché non danno inizio a un accidente di niente. È come stare dentro a un’automobile senza mai accenderla per farla partire. È come mordersi la coda. La verità, invece, è tale quando ci afferra e ci coinvolge imprimendo alla vita una direzione, un senso di marcia. Se sbagliamo strada, se ci pare di stare sempre all’inizio, se siamo spaventati o ci sentiamo inadeguati non è segno di una realtà inferiore, precisa Merleau-Ponty. La cosa più importante è non sottrarsi dal cerchio magico della percezione, dei rapporti con gli altri, con se stessi e con le cose perché sono queste le condizioni per poter farsi abitare dalla verità e dalla varietà delle sue distinzioni, più o meno consapevoli.
«La peculiarità del filosofo», scrive Merleau-Ponty, «è il movimento incessante che dal sapere riconduce all’ignoranza e dall’ignoranza al sapere». E questo scritto è una esortazione affinché tutti siano filosofi, a che la filosofia, come dice Franca D’Agostini, sia finalmente presa in considerazione come un’ipotesi antropologica degna di valutazione. In questo dondolio tra il sapere e l’ignoranza non dobbiamo dimenticare i momenti di stasi, quelli che prima abbiamo chiamato distacchi, sospensioni, epoché, dobbiamo anzi allenarci, dobbiamo educarci a fare entrare quell’istante effimero dentro le nostre attenzioni sempre più fragili e instabili. In quali situazioni si può trovare questa stasi? Per esempio nel respiro. Prima che l’aria entri e prima che l’aria esca dai nostri polmoni c’è una stasi cui solitamente non prestiamo attenzione. In questa stasi si può osservare il movimento nel suo stato potenziale. Altra stasi importantissima è quella tra una parola e un’altra, la stasi del silenzio, una cornice senza la quale le parole finiscono per significare tutte la stessa cosa. Questa stasi è quindi anche lo spazio del discernimento, è una sospensione dell’azione di cui è possibile approfittare per ri-aggiustare il tiro dell’azione stessa, per rendere l’azione più consapevole, ovvero, come dice Merleau-Ponty, per agire filosoficamente.
Ma è anche lo spazio dell’infra interpersonale che non è un impedimento o una riduzione del soggetto; è ciò senza cui il soggetto sparirebbe perché è solo grazie all’introiezione di quello spazio tra sé e l’altro che il soggetto impara a porre uno spazio di ascolto dentro di sé, che è la condizione per cui può costruire mondi di significati (se il soggetto non ascoltasse ciò che dice, se cioè non riflettesse sui suoi moti semantici, sulle sue significazioni, esse non sarebbero diverse da eventi impersonali. ). Questa stasi è anche quel distacco tra le persone cui è essenziale prestare attenzione per poter stare davvero insieme con gli altri invece che appiccicarsi loro in una relazione irrispettosa e violenza che schiaccia le differenze invece di fare loro spazio perché possano germinare. La stasi è lo spazio o il tempo dell’ascolto che non solo dobbiamo alle parole altrui ma anche alle parole che noi stessi pronunciamo se vogliamo che esse non siano ripetizione di un pensiero già pensato ma la nascita di un nuovo pensiero, l’espressione che il pensiero sta vivendo in noi piuttosto di essere qualcosa di ricordato.
Roma, 15 aprile 2014
Aula Magna del Liceo Gelasio Caetani - Roma
http://www.edizionisolfanelli.it/elogiodellafilosofia.htm
Ringrazio il prof. Gianluca Valle per avermi invitato a presentare questa nuova preziosa pubblicazione dell’Elogio della Filosofia di Maurice Merleau-Ponty (a cura di Carlo Sini, Postfazione di Gianluca Valle, Chieti, Solfanelli, collana Arethusa, 2013, pp. 96, 9 euro). Tale invito mi è particolarmente gradito perché ha anche esso il sapore di un’esortazione alla filosofia, proprio come il testo che vi stiamo per proporre. Si tratta di uno scritto insieme poderoso e agile dalla cui lettura, fluida e scorrevole e che non prende più di un paio d’ore, si può trarre tutto l’appagamento di un vero e proprio mini-percorso filosofico. La sua freschezza espositiva conserva la chiara impronta di un discorso pronunciato a persone in carne ed ossa. Si tratta infatti della lezione inaugurale al Collège de France tenuta dal grande fenomenologo francese morto nel 1961 a soli 53 anni. Stupisce che un testo così prezioso, tradotto e brevemente introdotto da Carlo Sini ormai trent’anni fa, sia stato editorialmente negletto nel recente clima di ripresa d'interesse per gli studi fenomenologici. Dobbiamo alla solerzia un po’ sfrontata del direttore della collana Arethusa questo doveroso ripescaggio.
Dalla lucida Postfazione di Gianluca Valle, nutrita e nutriente, apprendiamo che questo scritto «si inserisce nel solco delle tradizionali esortazioni alla filosofia che, specialmente nell’Antichità, avevano il compito di avvicinare i giovani a questa peculiarissima forma di sapere». Esso contribuisce a ribadire «il carattere necessario dell’attività filosofica».
Era il 1953. In quello stesso anno il dissidio tra Merleau-Ponty e Sartre raggiungeva il culmine. Sul piano politico Merleau-Ponty non poteva più condividere il totale appoggio di Sartre alle posizioni dell’URSS e del partito comunista francese e si volgeva verso posizioni socialiste; sul piano più strettamente filosofico prendeva le distanze dalla prospettiva sartriana. Essa si fondava sul dualismo cartesiano di res extensa e res cogitans, ossia sulla contrapposizione tra il per-sé, quale puro non-essere, e l’in-sé, quale puro essere e finiva in tal modo per risultare una filosofia riflessiva o del “soggetto puro”. Merleau-Ponty, invece, approfondendo la tematica husserliana del mondo-della-vita, rigettava tale supposta trasparenza dei rapporti io-mondo e rivolgeva la sua attenzione alla vita irriflessa e fungente del corpo – una struttura anteriore alla stessa distinzione soggetto-oggetto e capace di un’esperienza percettiva anonima. «Se volessi tradurre esattamente l’esperienza percettiva», scriveva il filosofo, «dovrei dire che si percepisce in me e non che io percepisco».
Non c’è un io, non c’è un soggetto esterno al mondo capace di una presa obiettivistica, ma un corpo vivente «che non ha bisogno di uscire da sé per raggiungere le cose stesse: egli è interiormente sollecitato e assillato da esse». Questo corpo è il medium in cui si costituisce il rapporto tra soggetto e oggetto, tra io e mondo; è un universo di «promiscuità», di «latenza», di «sostituzioni», di «inversioni», di «scambi tra anima e corpo, tra io e l’altro, tra il presente e il passato, tra l’immaginario e il reale». E questo rapporto è il ritratto del rapporto che il filosofo ha con l’essere: non il «rapporto frontale che ha lo spettatore con lo spettacolo» ma «una sorta di complicità, una relazione obliqua e clandestina», un «rapporto ossessivo» con qualcosa che «è là, davanti a noi, e tuttavia ci raggiunge dal di dentro». Non appena cerchiamo di oggettivare l’essere, di porlo di fronte a noi, di razionalizzarlo, quello riprende mostruosamente a sgorgare da dentro di noi fino a sommergerci, a travolgerci ma anche ad accoglierci e a sostenerci. Così, per un verso ci pare di coincidere con esso, di non esser altro che muta inerenza; per l’altro, quando attraverso di noi l’essere si rivela, scopriamo che «ciò che si riteneva essere coincidenza è coesistenza», cioè un rapporto ben più articolato di azione reciproca. Lo spirito incarnato nel corpo «non è più l’indivisione pura» ma «’lo sforzo di raccogliersi’ tra i due limiti del ricordo puro e dell’azione pura», lo sforzo cioè di restare immersi nella percezione – una «lettura di cui siamo capaci perché portiamo incarnato nel nostro essere l’alfabeto e la grammatica della vita». La percezione è la «condizione umana» stessa e, in quanto tale, non si può abbandonare. Essa è «il sapere assoluto del filosofo», è il luogo originario in cui accade il mondo, il filo conduttore che apre il nostro esserci all’alterità. Così come «l’espressione si compie solo rinunciando a coincidere con ciò che è espresso» e così come «la filosofia ha a noia il già costituito», allo stesso modo nella percezione il toccato e il toccante coesistono senza coincidere. La pelle e il tessuto carnale sono metafora della comune appartenenza di io e mondo. L’immagine del corpo capace di sdoppiarsi esemplifica la condizione stessa dell’esercizio filosofico, cioè il distacco, l’epoché. Ora vi invito, mentre leggerò queste poche righe, a sperimentare su voi stessi l’azione che qui viene descritta. Dovreste dotarvi di un qualcosa da tenere nella mano destra. E potrei scommettere che 8 su 10 avranno in mano il telefono!
«La mia mano sinistra è sempre sul punto di toccare la destra intenta a toccare le cose, ma io non giungo mai alla coincidenza, essa si eclissa nel momento di realizzarsi, e ci troviamo sempre di fronte a questa alternativa: o veramente la mia mano destra passa nella condizione di toccato, ma allora la sua presa sul mondo si interrompe, - oppure la conserva, ma è allora che io non la tocco veramente, in se stessa, e con la mia mano sinistra ne palpo solo l’involucro esteriore» (M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Milano, Bompiani, 1998, p. 163).
Questo sdoppiamento, a ben guardare, può essere ricondotto a quello che è necessario al parlare affinché il parlare abbia senso: oltre a parlare io devo anche ascoltarmi. È possibile parlare sensatamente senza ascoltarsi? Oppure tale sdoppiamento rimanda alla duplicazione della «volontà di parlare» che «è tutt’uno con la volontà di essere compresi» Tale capacità di prendere le distanze, leggiamo nell’Elogio, oltre ad essere intrinseca alla percezione, che, come abbiamo visto, è equiparata da Merleau-Ponty al sapere filosofico, permea anche la storia. Non la storia che sa già dove «andrà ineluttabilmente a parare», la «storia universale di Hegel che è il sogno della storia. Come nei sogni, tutto ciò ch è pensato è reale e tutto ciò che è reale è pensato e gli uomini non possono far nulla che non sia già compreso nel sistema». Ma la storia intesa, con il giovane Marx, come quella contingenza che non contraddice una logica prestabilita. La storia come quel «contesto nel quale si forma ogni senso», come quell’ambito reale nel quale si forma il movimento della praxis, l’«incontro delle azioni con le quali l’uomo organizza i suoi rapporti con la natura e con gli altri uomini», l’«evento intersoggettivo» che «acquista il valore di una genesi della ragione». La stessa capacità di non creare aderenze assolutizzanti tra lo spirito e la cosa ricorre, come messo a fuoco da Saussure, nel linguaggio vivente, dove l’esecuzione linguistica individuale (parole) spesso si stacca dalla lingua comune (langue) affermando uno stile personale potenzialmente innovativo a meno che non si stia usando un linguaggio molto stereotipato. Anche il pittore, ricorda Merleau-Ponty, «non conosce la legge organizzativa dei suoi atti» e «Bergson aveva torto di credere che il quadro sia un atto semplicemente proiettato sulla tela; esso è invece il punto sedimentato di una serie di sforzi di espressione», permane cioè sempre uno scarto rispetto alla norma che non è impedimento ma possibilità di agire liberamente. Grande maestro di questo distanza filosofica è poi Socrate: «L’ironia di Socrate è un rapporto distaccato ma veritiero con l’altro; essa esprime che ognuno non è che se stesso, ineluttabilmente, e nondimeno si riconosce nell’altro». La distanza in questione non riguarda solo il rapporto tra le persone ma il rapporto di ognuno con la verità: «Socrate non sa più degli altri, sa soltanto che non c’è un sapere assoluto e che è per questa lacuna che noi siamo aperti alla verità»
Come si è cercato di mostrare in Merleau-Ponty «l’epoché», precisa opportunamente Gianluca Valle nella sua ricca e accurata Postfazione che riempie un buco ermeneutico di trent’anni, «non ha lo scopo di restaurare una concezione idealistica per cui tutta la realtà è posta all’interno della coscienza ma serve a riscoprire il legame indissolubile tra io e mondo». «Sul modo d’intendere l’autoimmanenza della coscienza», inoltre, Merleau-Ponty «prende le distanze da Husserl», dal «mito della piena presenza a se stessa» della coscienza costituente husserliana. Non per questo arriva mai a ricusare «il più grande insegnamento dell’epoché husserliana», cioè «l’impossibilità di una riduzione completa giacché la vita irriflessa continua a fungere al di là di qualsiasi tentativo di riappropriazione riflessiva».
«Quale che sia l’essenza intima di ciò che è e di ciò che si fa … noi ci siamo dentro», il che significa, spiega il filosofo, che «tutti gli esseri creano una simbolica della nostra vita ed è sempre la nostra vita che leggiamo in essi». Anni prima Wittgenstein, che Merleau-Ponty non conosceva, sembrava aver posto le premesse di questa affermazione scrivendo: «L’ideale, nel nostro pensiero, sta saldo e inamovibile. Non puoi uscirne. Devi sempre tornare indietro. Non c’è alcun fuori; fuori manca l’aria per respirare …» (Ricerche Filosofiche, § 103) La verità, intendono dire entrambi i filosofi, come acutamente nota Gianluca Valle, non sta in una realtà esterna di cui sia possibile dare una «rappresentazione adeguata» secondo la «teoria della verità come corrispondenza» quanto in quella «rappresentazione perspicua» che può esprimerla. Si tratta di un’espressione costruita «sui nessi», sui «rimandi interni», sui rapporti laterali, le parentele, i rivolgimenti e gli scambi. «Il miracolo dell’espressione», considera poi Gianluca Valle con parole suggestive, «consiste nel recuperare un contatto con l’essere che non è davanti ma intorno a noi, nel far parlare le cose senza trasformarle in oggetti ideali», visto che «se la verità fosse coincidenza con le cose sarebbe muta».
«La verità di un essere non è ciò che egli è divenuto alla fine, o la sua essenza: è il suo attivo divenire, la sua esistenza», si legge nella prima delle tre note che Merleau-Ponty aggiunge alla fine del libro. Poco prima aveva considerato: «ciò che vi è sempre di incoativo, di mancato e perturbante nel presente non è più un segno di una nostra realtà inferiore». Ma che senso può avere per dei ragazzi come voi una parola apparentemente così tecnica come quella di verità? Per avvicinarci ad un’esperienza filosofica, ma anche solo per accendere la nostra attenzione rispetto a ciò che studiamo, dobbiamo girare e rigirare intorno alla questione, rimasticarla lentamente, corteggiarla senza fretta fino a quando, proprio come faremmo con una persona che vogliamo conoscere, cominciamo a scoprirne quell’aspetto particolare per il quale ci interessa e per il quale vale la pena stringere la conoscenza. Ma dobbiamo fare un certo sforzo, uno sforzo semplice e difficile insieme, sforzarci ad attendere con pazienza tutto il tempo necessario affinché il nostro semplice guardare si tramuti in vedere, in notare, in un cogliere e discernere dettagli che sembravano non esserci. Dobbiamo soffermarci, rallentare i pensieri e dirigerli verso la ricerca di qualche esempio attinto dalla nostra vita quotidiana - di qualche immagine, di qualche episodio, o emozione – capace di dialogare con quella questione e di entrare con essa in una risonanza che abbia quegli accenti familiari in cui possiamo riconoscerci e cominciare il nostro viaggio socratico di autoconoscenza.
La questione da cui parte Merleau-Ponty è dunque la verità. Immaginiamo ora che Federica chieda a Carlo: «Carlo, ma tu mi ami?». Carlo risponde: «Sì, ti amo». Poco dopo Federica tutta contenta d’essere ricambiata in amore incontra l’amica Ilaria che mogia mogia le confessa di essersi appena baciata con Carlo. Improvvisamente per Federica la verità diventa qualcosa di molto importante, potremmo dire che essa diventa la sua urgenza, la sua emergenza. Ma questa questione non ha preso tutta la forza che ha preso al di fuori della vita bensì dentro di essa, all’interno delle relazioni che Federica ha con gli altri. Tenendo a mente il guaio in cui si è venuta a trovare Federica, nonché Carlo e Ilaria, leggiamo ora questo bellissimo passaggio di Merleau-Ponty e cerchiamo di percepire se in esso vi sono idee che possono aiutare la situazione particolare:
«…non c’è un luogo della verità dove si debba andare a cercarla costi quel che costi, anche spezzando i rapporti umani e i legami della vita e della storia. Il nostro rapporto con la verità passa attraverso gli altri. O andiamo verso la verità con loro o non è verso la verità che andiamo. Ma il colmo della difficoltà è che, se la verità non è un idolo, per parte loro gli altri non sono dèi. Non c’è verità senza di loro, ma non è sufficiente essere con loro per raggiungere la verità».
I fatti sono forse noti ma qual è il loro significato, qual è la loro verità? Quel bacio era uno scherzo, un dispetto, una vendetta, con che intenzione si sono baciati? Hanno pensato alle conseguenze oppure se ne sono infischiati? O forse l’attrazione era irresistibile? O forse lo hanno fatto per superficialità? Merleau-Ponty ci dice che la verità è una nozione della quale possiamo disporre non prima del rapporto con gli altri ma grazie al rapporto con loro. Per questo stesso motivo troviamo scritto in questo testo che Socrate preferì la condanna a morte all’esilio perché «pensava che non si può essere giusti da soli, che esserlo da soli equivale a cessare di essere giusti». Questa cosa la credeva anche Aristotele a proposito della felicità, che essa non ha senso senza amici.
Ma per convincerci ulteriormente riguardo alla natura sociale della verità e quindi del senso delle cose pensiamo a quel film, Into the wild, lo conoscete? Chi lo conosce? Mi riferisco all’episodio in cui il ragazzo, che cerca di sopravvivere da solo in una natura selvaggia, raccoglie una bacca, la mangia e muore avvelenato. La conoscenza che aveva della bacca non era una conoscenza veritiera. Ancora vediamo che la nozione di verità è legata al nostro rapporto con gli altri, anche se la presenza degli altri non è che un lascito di competenze botaniche, un patrimonio culturale di conoscenze indispensabili a vivere. Senza la nozione di verità l’essere umano non può vivere. A differenza dei vegetali, degli animali e dei minerali, l’essere umano per esistere deve conoscere la sua esistenza, deve cioè confrontarsi con la questione della verità. Ora capiamo meglio perché Merleau-Ponty ci tiene a spiegare che la verità non è qualcosa di prestabilito e neanche un risultato ma è qualcosa che sta sempre all’inizio, che sempre dobbiamo cominciare a fare, che è cioè incoativa. Oggigiorno passiamo molto tempo della nostra vita a simulare la verità davanti al computer. Le simulazioni non sono un male di per sé. Lo sapete bene quando fate le simulazioni delle prove di maturità. Sono esercitazioni importanti ma non corrispondono alla verità. Per quale motivo?
C’è una differenza fra il pensare/immaginare/sognare/sperare di fare un esame e il farlo davvero. La differenza sembra nota a tutti, sembra lampante ma in effetti a poco poco noi andiamo perdendo il senso pulsante di quella differenza perché comunque la virtualità ci emoziona, ci smuove dentro, sembra che ci faccia sentire vivi lo stesso. Merleau-Ponty ci aiuta a rinfrescare il senso di questa differenza tra virtualità e verità: egli mette in risalto il fatto che nella virtualità le cose non sono vere soprattutto perché non danno inizio a un accidente di niente. È come stare dentro a un’automobile senza mai accenderla per farla partire. È come mordersi la coda. La verità, invece, è tale quando ci afferra e ci coinvolge imprimendo alla vita una direzione, un senso di marcia. Se sbagliamo strada, se ci pare di stare sempre all’inizio, se siamo spaventati o ci sentiamo inadeguati non è segno di una realtà inferiore, precisa Merleau-Ponty. La cosa più importante è non sottrarsi dal cerchio magico della percezione, dei rapporti con gli altri, con se stessi e con le cose perché sono queste le condizioni per poter farsi abitare dalla verità e dalla varietà delle sue distinzioni, più o meno consapevoli.
«La peculiarità del filosofo», scrive Merleau-Ponty, «è il movimento incessante che dal sapere riconduce all’ignoranza e dall’ignoranza al sapere». E questo scritto è una esortazione affinché tutti siano filosofi, a che la filosofia, come dice Franca D’Agostini, sia finalmente presa in considerazione come un’ipotesi antropologica degna di valutazione. In questo dondolio tra il sapere e l’ignoranza non dobbiamo dimenticare i momenti di stasi, quelli che prima abbiamo chiamato distacchi, sospensioni, epoché, dobbiamo anzi allenarci, dobbiamo educarci a fare entrare quell’istante effimero dentro le nostre attenzioni sempre più fragili e instabili. In quali situazioni si può trovare questa stasi? Per esempio nel respiro. Prima che l’aria entri e prima che l’aria esca dai nostri polmoni c’è una stasi cui solitamente non prestiamo attenzione. In questa stasi si può osservare il movimento nel suo stato potenziale. Altra stasi importantissima è quella tra una parola e un’altra, la stasi del silenzio, una cornice senza la quale le parole finiscono per significare tutte la stessa cosa. Questa stasi è quindi anche lo spazio del discernimento, è una sospensione dell’azione di cui è possibile approfittare per ri-aggiustare il tiro dell’azione stessa, per rendere l’azione più consapevole, ovvero, come dice Merleau-Ponty, per agire filosoficamente.
Ma è anche lo spazio dell’infra interpersonale che non è un impedimento o una riduzione del soggetto; è ciò senza cui il soggetto sparirebbe perché è solo grazie all’introiezione di quello spazio tra sé e l’altro che il soggetto impara a porre uno spazio di ascolto dentro di sé, che è la condizione per cui può costruire mondi di significati (se il soggetto non ascoltasse ciò che dice, se cioè non riflettesse sui suoi moti semantici, sulle sue significazioni, esse non sarebbero diverse da eventi impersonali. ). Questa stasi è anche quel distacco tra le persone cui è essenziale prestare attenzione per poter stare davvero insieme con gli altri invece che appiccicarsi loro in una relazione irrispettosa e violenza che schiaccia le differenze invece di fare loro spazio perché possano germinare. La stasi è lo spazio o il tempo dell’ascolto che non solo dobbiamo alle parole altrui ma anche alle parole che noi stessi pronunciamo se vogliamo che esse non siano ripetizione di un pensiero già pensato ma la nascita di un nuovo pensiero, l’espressione che il pensiero sta vivendo in noi piuttosto di essere qualcosa di ricordato.
mercoledì 16 aprile 2014
Sulla noia da Jiddu Krishnamurti
È semplice morire, ed è difficile continuare: poiché la continuità è lo sforzo tra essere o non essere; … Non può esistere purificazione della mente se essa sta tessendo il modello del proprio divenire.[Il] movimento acquisitivo viene chiamato espansione di pensiero, progresso. ... fino a che è presente lo sforzo di acquisire, ci sarà interesse; ma c’è sempre una fine all’acquisizione, e così ci sarà sempre noia ... Il possesso estenua la mente … la predispone alla noia. L’acquisizione conduce alla mancanza di sensibilità in qualsiasi ambito si esplichi: nella conoscenza, nella proprietà, nella virtù.«Ma come si può allora essere liberi dall’acquisire senza impegnarci in ulteriori acquisizioni?»Solamente cercando di sperimentare e verificare la verità dell’intero processo di acquisizione, e non certo sforzandoci di essere non acquisitivi ...La difficoltà ... non sta nella comprensione verbale di ciò che è stato detto, ma nello sperimentare il falso come falso: vedere la verità nella falsità è l’inizio della saggezza. Per la mente è difficile riuscire a restare immobile, silenziosa ... è molto raro che ci sia mai un intervallo fra i pensieri, perché un pensiero segue l’altro senza pausa ...determinando...il proprio esaurimento ...La bellezza sta nello sperimentare, non nell’esperienza malata; poiché l’esperienza è comunque del passato, e il passato non è lo sperimentare, non è il vivere.
lunedì 31 marzo 2014
Prime luci
Prime luci
Prime luci, candido volto di ninfa
che il pudore nell'imminenza di donna
tinge di rosa.
Pochi istanti e quel pizzico
di porpora nel latte,
tu ti levi in piedi
e ne fai il tuo trucco di amazzone del giorno.
Sei pronta, esci di casa.
Il tuo splendore strilla,
i tuoi passi felpati di tigre color luce,
abbagliano la città
e tu su tutte sei la più bella.
Ma quel tuo candore incarnato,
meno bianco e lucente
di questo tuo bianco
che ora abbaglia, non dimenticare.
Portane con te uno scampolo,
una velina rosata da coprirti il volto
quando davanti a un dolore
non vorrai ferirlo oltre con la tua presenza.
Prime luci, candido volto di ninfa
che il pudore nell'imminenza di donna
tinge di rosa.
Pochi istanti e quel pizzico
di porpora nel latte,
tu ti levi in piedi
e ne fai il tuo trucco di amazzone del giorno.
Sei pronta, esci di casa.
Il tuo splendore strilla,
i tuoi passi felpati di tigre color luce,
abbagliano la città
e tu su tutte sei la più bella.
Ma quel tuo candore incarnato,
meno bianco e lucente
di questo tuo bianco
che ora abbaglia, non dimenticare.
Portane con te uno scampolo,
una velina rosata da coprirti il volto
quando davanti a un dolore
non vorrai ferirlo oltre con la tua presenza.
ontologia politica: ens et bonum convertuntur - bonum est faciendum
- comunità e società
- democrazia partecipativa - critica alla selezione dei beni
- gruppi portatori di differenze altrimenti invisibili
- passaggio da norme internazionali (diritto degli stati) a norme cosmopolitiche (diritto degli individui) (nota che c'è maggior contatto tra il tutto e la parte singola piuttosto che tra il tutto e un raggruppamento di parti. Così l'idea di Young di arrivare alla visibilità politica degli oppressi realizzando l'equità sociale attraverso la rappresentanza corporativa contrasta teoricamente l'idea di Benhabib per cui l'apertura del gruppo nazionale grazie alla genesi di norme cosmopolitiche, l'iniezione in casa propria di questioni umanitarie extranazionali, impone la buona pratica del confronto con l'altro, in una iteratività di variazioni e integrazioni legislative che, come fosse un esercizio spirituale di democrazia, prepara il miglioramento della vita democratica stessa, l'accrescimento della sua plasmabilità ai principi e interessi altrui che la orienta in senso egualitario.
- le dottrine liberali ritengono che alla base della moralità ci siano regole cui ogni persona in certe condizioni ideali darebbe il consenso (qui si può notare che più che ideali tali condizioni del consenso sono trascendentali, o relativa all'universale soggettivo kantiano)
- il liberalismo ritiene che i principi di giustizia non presuppongano concezioni particolari del bene cioè che la categoria del giusto sia prioritaria e indipendente rispetto al bene
- i neocomunitari criticano il liberalismo perché:
2. la sua idea di neutralità può dar luogo a visioni opposte e incompatibili (p.es. egualitarismo moderato come Rawls e individualismo proprietario duro alla Nozick)
3. pone una separazione illusoria tra giustizia e visioni del bene, tra giudizio legale sull'ammissibilità di qualcosa e presa di posizione, giudizio morale sulla cosa stessa (come rileva A. Ferrara
1.
- liberalismo comunitarismo
- universalismo democrazia
forma materia
- giudizio legale giudizio morale
è giusto è buono
valido sintatticamente valido semanticamente
inizio - arché prosecuzione, svolgimento - prattein
unicità iteratività
senza contesto contestuale
2.
- dalla notazione di salvatore natoli, 1196
gli antichi non avrebbero mai chiamato il bene un valore perché il bene coincide con l'essere
ens et bonum convertuntur
Così il bene non è valutabile ma va semplicemente compiuto.
Per noi moderni è il soggetto che valuta questo o quel bene, che pensa al bene (all'essere) in termini di valore e già ciò è motivo di crisi. (Abbiamo la convinzione di poter scegliere quell'essere che è invece ciò senza il quale non potremmo essere. vedi sotto.)
3.
metodo elenchico:
« I principi innati nella ragione si dimostrano verissimi: al punto che non è neppure possibile pensare che siano falsi. »
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(Tommaso d'Aquino in Contra Gentiles I, c.7 n.2)
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L'ora di studiare - sunti di filosofia politica - Seyla Benhabib (dalla rassegna di Federica Giardini)
Ulteriori prospettive: vita comune, sé e giustizia
Seyla Benhabib, Cittadini globali, 2008
Il processo ad Adolf Eichman è preso come esempio del
norme cosmopolitiche: sono gli individui i soggetti di diritto
Ecco una casistica degli ambiti in cui si generano le norme cosmopolitiche nel regime internazionale dei diritti umani:
Tuttavia l'interrelazione tra norme locali e norme cosmopolitiche iterata dalle cittadinanze democratiche al fine di generare nuove norme costituisce di per sé una buona pratica che rinnova le democrazie stesse, le rende più permeabili a nuovi contesti semantici, svela il dinamismo del concetto di popolo, crea un nuovo universo di significati, valori e relazioni sociali.
Seyla Benhabib, Cittadini globali, 2008
Il processo ad Adolf Eichman è preso come esempio del
- passaggio da norme di giustizia internazionali a norme cosmopolitiche
norme cosmopolitiche: sono gli individui i soggetti di diritto
Ecco una casistica degli ambiti in cui si generano le norme cosmopolitiche nel regime internazionale dei diritti umani:
- crimini contro l'umanità
- interventi umanitari
- migrazioni transnazionali
Tuttavia l'interrelazione tra norme locali e norme cosmopolitiche iterata dalle cittadinanze democratiche al fine di generare nuove norme costituisce di per sé una buona pratica che rinnova le democrazie stesse, le rende più permeabili a nuovi contesti semantici, svela il dinamismo del concetto di popolo, crea un nuovo universo di significati, valori e relazioni sociali.
L'ora di studiare - sunti di filosofia politica - Iris Marion Young (dalla rassegna di Federica Giardini)
Ulteriori prospettive: vita comune, sé e giustizia
Iris Marion Young, Politiche della differenza, 1996
All'interno del dibattito tra neoliberali e comunitari sul ritorno della comunità nell'epoca della globalizzazione Young propone una teoria della giustizia che si oppone alle teorie liberali come quella di John Rawls.
La sua tesi centrale è l'estensione della democrazia partecipativa dalla sfera politica a quella economia, sociale e culturale.
Iris Marion Young, Politiche della differenza, 1996
All'interno del dibattito tra neoliberali e comunitari sul ritorno della comunità nell'epoca della globalizzazione Young propone una teoria della giustizia che si oppone alle teorie liberali come quella di John Rawls.
La sua tesi centrale è l'estensione della democrazia partecipativa dalla sfera politica a quella economia, sociale e culturale.
Il problema della giustizia non riguarda l'iniqua distribuzione dei bene perché i rimedi ottenuti dall'applicazione di tale paradigma distributivo:
- da un lato, lasciano immutate e incontestate le gerarchie che decidono quali siano tali beni, quali le norme e regole delle strutture e delle pratiche sociali, quale il linguaggio e i simboli;
- dall'altro, lasciano nell'invisibilità politica quei gruppi che sono invece il vero oggetto dell'oppressione sociale. ("Se è possibile parlare solo con il linguaggio degli uguali i diversi sono condannati al silenzio").
Coerentemente l'autrice critica quindi:
- le politiche assistenzialistiche che riducono i cittadini a consumatori passivi
- l'ingannevole universalismo di quel ragionamento morale (vessillo del maschio borghese occidentale) che presume di essere basato su un punto di vista impersonale e imparziale, di essere capace di mantenersi equidistante dagli interessi in gioco e di far valere i principi generali. In realtà esso schiaccia la pluralità, la varietà, l'eterogenità, la discorsività delle differenze in un identico monologico (è la logica dell'identità la cui stigmatizzazione procede qui sulle tracce di Adorno, Derrida e Luce Irigaray)
Per rendere visibile le varie facce dell'oppressione e smascherare l'illusione universalista occorre introdurre nell'analisi della comunità politica un altro personaggio (dramatis personae):
- il gruppo, rappresentanza corporativa di diritti violati, interessi oppressi, testimonia che il pubblico dei cittadini non è affatto omogeneo
Il gruppo si associa in base ad affinità reciproche che lo differenziano da un altro gruppo per forme culturali e modi di vivere. I suoi membri si riconoscano nel gruppo perché è in esso che formano il loro senso di identità. (C'è qui il rischio che il gruppo assuma i connotati della comunità organica di Toennis e diventi esclusivista e chiuso. Se il senso di sé passa per la formazione che si riceve esso avrà un respiro tanto maggiore, una levatura filosofica, per così dire, quanto più cosmopolitico sarà il suo l'orientamento. Questa circostanza sembra però intrinsecamente esclusa da questa teoria del gruppo)
La rappresentanza per gruppi ha maggior forza nel massimizzare la dimensione partecipativa.
Iris Marion Young
Iris Marion Young
domenica 30 marzo 2014
L'ora di studiare - sunti di filosofia politica - Toennies (dalla rassegna di Federica Giardini)
Un classico, antecedente del dibattito contemporaneo
F. Toennies, Comunità e società 1887
L'autore contrappone la nozione di comunità a quella di società.
Comunità. Sua forma embrionale sono i vincoli familiari. Le unioni sono qui improntate alla comprensione, consenso, intimità, riconoscenza, confidenza, condivisione di linguaggi, significati, abitudini, spazi, ricordi e esperienze comuni. Ad essa ci si sente uniti in modo permanente (il nesso tra la costituzione del senso di sé e la dimensione inter-relazionale può essere riconosciuto in questo passaggio che fa rilevare come l'esperienza della permanenza della relazione con gli altri possa essere vista in analogia con il senso della continuità del proprio sé, con l'esperienza di avere una storia, una biografia per la quale morremo piuttosto che una zoologia che invece ignora quella contingenza)
e in essa non si ha un certo ruolo (anche se non è vero assumo che sia interessante valutare la possibilità di rapporti interpersonali capaci di prescindere dai ruoli e che potrebbe essere proprio questo il criterio per valutare l'intimità di un rapporto sia con l'altro in quanto essere vivente, sia in quanto oggetto di conoscenza)
ma se ne fa parte con la totalità del proprio essere. Suoi caratteri distintivi tra gli altri: esclusività, durata.
Evidenzio qui una debolezza di questa distinzione che ha comunque il merito di descrivere caratteri presenti nelle relazioni umane, sebbene essi non si distribuiscano necessariamente secondo quella linea divisoria qui tracciata. Per quanto riguarda l'identificazione della sfera privata con sentimenti di esclusione che portano a vedere gli estranei alla comunità come degli intrusi penso, similmente a Stefano Petrucciani a conclusione del saggio che vedremo, che solo l'universalismo sia coerente con il riconoscimento della maggiorità filosofica degli individui. Lo stesso può essere detto nel modo di Franca D'Agostini, assumendo cioè che la filosofia sia una ipotesi antropologica proprio perché fonda la polis sull'esercizio della razionalità intesa, a mio giudizio, non come un valore che aiuta a stare insieme in modo giusto ma come l'essenza stessa di quel stare insieme dal quale dipende strutturalmente la possibilità individuale di essere. La nozione di razionalità a cui mi riferisco, tuttavia, non è razionalistica ma più fenomenologica sebbene non del tutto in linea con certi assunti.
Per tornare alla comunità di T penso insomma che una prospettiva filosofica delle relazioni interpersonali dovrebbe prevedere la tematizzazione dei fattori disgreganti. Considerarli un motivo possibile di organizzazione dei rapporti deve cioè essere un momento distinto da quello di considerarli un motivo efficace in tale organizzazione, non è detto, cioè, che li si debba lasciare agire al punto da costruirci sopra una descrizione della realtà che non è calzante. Altrimenti si acconsente prima ancora di averla osservata alla logica esclusiva di costruzione dell'identità comunitaria accreditando l'idea, ancora tutta da esaminare, che proprio essa sia la sua natura. In più il danno teorico è accresciuto dal fatto che l'altro fronte della sfera privata, cioè la sfera pubblica della società, descritta come preciso equivalente dei rapporti economici di mercato, non ha neanche esso i requisiti per recepire il contrario dell'esclusività, cioè la disposizione ad includere. Questa disposizione, che è connessa intimamente con la suddetta nozione di universalismo, è invece propria della filosofia, più o meno consapevolmente espugnata dalla distinzione di T insieme purtroppo a quella categoria di universalità che regge, insieme col dialogo parlato, quel dialogo tacito su cui si fondano i rapporti e che dovremmo qui cercare di riconoscere nella sua essenza
F. Toennies, Comunità e società 1887
L'autore contrappone la nozione di comunità a quella di società.
Comunità. Sua forma embrionale sono i vincoli familiari. Le unioni sono qui improntate alla comprensione, consenso, intimità, riconoscenza, confidenza, condivisione di linguaggi, significati, abitudini, spazi, ricordi e esperienze comuni. Ad essa ci si sente uniti in modo permanente (il nesso tra la costituzione del senso di sé e la dimensione inter-relazionale può essere riconosciuto in questo passaggio che fa rilevare come l'esperienza della permanenza della relazione con gli altri possa essere vista in analogia con il senso della continuità del proprio sé, con l'esperienza di avere una storia, una biografia per la quale morremo piuttosto che una zoologia che invece ignora quella contingenza)
e in essa non si ha un certo ruolo (anche se non è vero assumo che sia interessante valutare la possibilità di rapporti interpersonali capaci di prescindere dai ruoli e che potrebbe essere proprio questo il criterio per valutare l'intimità di un rapporto sia con l'altro in quanto essere vivente, sia in quanto oggetto di conoscenza)
ma se ne fa parte con la totalità del proprio essere. Suoi caratteri distintivi tra gli altri: esclusività, durata.
- qui si entra con la nascita, essa è la sfera privata
- diritto familiare
- il potere è qui usato per educare e insegnare
- qui si entra come in una terra straniera, essa è il pubblico (da quest'analisi la nozione di pubblico finisce per essere connotata solo in senso negativo. Essa è invece, per me, la base della persona privata e della civiltà come luogo che consente l'attuazione di questa esistenza personale che frequentemente vediamo inattuata. La nozione di pubblico è ciò grazie a cui la convivenza civile può non essere considerata un evento occasionale e contingente, legato a interessi particolari, ad emergenze straordinarie che ci distruggono la casa. E' piuttosto esso la nostra casa d'origine perché è in esso la nostra struttura in quanto persone. La nostra essenza di persone ci è data dalla di pubblico ma una istituzione a cui è appunto legata la possibilità di intraprendere una vita personale)
- diritto delle obbligazioni
- il potere è a vantaggio di chi ce lo ha
Evidenzio qui una debolezza di questa distinzione che ha comunque il merito di descrivere caratteri presenti nelle relazioni umane, sebbene essi non si distribuiscano necessariamente secondo quella linea divisoria qui tracciata. Per quanto riguarda l'identificazione della sfera privata con sentimenti di esclusione che portano a vedere gli estranei alla comunità come degli intrusi penso, similmente a Stefano Petrucciani a conclusione del saggio che vedremo, che solo l'universalismo sia coerente con il riconoscimento della maggiorità filosofica degli individui. Lo stesso può essere detto nel modo di Franca D'Agostini, assumendo cioè che la filosofia sia una ipotesi antropologica proprio perché fonda la polis sull'esercizio della razionalità intesa, a mio giudizio, non come un valore che aiuta a stare insieme in modo giusto ma come l'essenza stessa di quel stare insieme dal quale dipende strutturalmente la possibilità individuale di essere. La nozione di razionalità a cui mi riferisco, tuttavia, non è razionalistica ma più fenomenologica sebbene non del tutto in linea con certi assunti.
Per tornare alla comunità di T penso insomma che una prospettiva filosofica delle relazioni interpersonali dovrebbe prevedere la tematizzazione dei fattori disgreganti. Considerarli un motivo possibile di organizzazione dei rapporti deve cioè essere un momento distinto da quello di considerarli un motivo efficace in tale organizzazione, non è detto, cioè, che li si debba lasciare agire al punto da costruirci sopra una descrizione della realtà che non è calzante. Altrimenti si acconsente prima ancora di averla osservata alla logica esclusiva di costruzione dell'identità comunitaria accreditando l'idea, ancora tutta da esaminare, che proprio essa sia la sua natura. In più il danno teorico è accresciuto dal fatto che l'altro fronte della sfera privata, cioè la sfera pubblica della società, descritta come preciso equivalente dei rapporti economici di mercato, non ha neanche esso i requisiti per recepire il contrario dell'esclusività, cioè la disposizione ad includere. Questa disposizione, che è connessa intimamente con la suddetta nozione di universalismo, è invece propria della filosofia, più o meno consapevolmente espugnata dalla distinzione di T insieme purtroppo a quella categoria di universalità che regge, insieme col dialogo parlato, quel dialogo tacito su cui si fondano i rapporti e che dovremmo qui cercare di riconoscere nella sua essenza
sabato 29 marzo 2014
Cos'è davvero un'azione?
Cos'è davvero un'azione?
Cosa la distingue dal falso movimento?
Per muoversi bisogna star fermi così come per parlare bisogna star zitti.
Una motricità irrefrenabile così come una parola compulsiva non fanno e non dicono niente.
Ma a star troppo fermi e troppo zitti si diventa matti.
Va bene, parlo per me, iooo divento matta! (anzi quasi-matta e infatti ne soffro). Divento matta quando per troppo tempo non agisco ma sono vissuta dagli eventi, quando succedono cose ma non succedono davvero a me. Magari sono stata travolta eppure in fondo non sono stata toccata. E' stato un sogno, ho continuato a dormire, a istupidire di altro sonno; come se non fosse da millenni che dormo e preferirei approfittare della contingenza di esser nata per svegliarmi un attimo. La fenomenologia li chiama vissuti non egologici.
http://books.google.it/books?id=uBdSa2GfkdMC&pg=PA85&lpg=PA85&dq=non+egologico+fenomenologia&source=bl&ots=wPEGzWtdXo&sig=fskbEVSvQZC_ZfTu9rRctiwhNC0&hl=it&sa=X&ei=mIs2U8e_BeLOygOhh4GAAg&ved=0CF0Q6AEwBg#v=onepage&q=non%20egologico%20fenomenologia&f=false
Di vissuto in essi per me c'è ben poco.
La vera azione invece si fa sentire perché non si fa mai da soli.
Non che ti costringe all'incontro quanto che è incontro.
Incontrare l'altro, incontrare altro nell'altro.
E quando cominci a percepire la presenza allora pian piano rinunci volentieri a ricostruire l'assenza.
Cosa la distingue dal falso movimento?
Per muoversi bisogna star fermi così come per parlare bisogna star zitti.
Una motricità irrefrenabile così come una parola compulsiva non fanno e non dicono niente.
Ma a star troppo fermi e troppo zitti si diventa matti.
Va bene, parlo per me, iooo divento matta! (anzi quasi-matta e infatti ne soffro). Divento matta quando per troppo tempo non agisco ma sono vissuta dagli eventi, quando succedono cose ma non succedono davvero a me. Magari sono stata travolta eppure in fondo non sono stata toccata. E' stato un sogno, ho continuato a dormire, a istupidire di altro sonno; come se non fosse da millenni che dormo e preferirei approfittare della contingenza di esser nata per svegliarmi un attimo. La fenomenologia li chiama vissuti non egologici.
http://books.google.it/books?id=uBdSa2GfkdMC&pg=PA85&lpg=PA85&dq=non+egologico+fenomenologia&source=bl&ots=wPEGzWtdXo&sig=fskbEVSvQZC_ZfTu9rRctiwhNC0&hl=it&sa=X&ei=mIs2U8e_BeLOygOhh4GAAg&ved=0CF0Q6AEwBg#v=onepage&q=non%20egologico%20fenomenologia&f=false
Di vissuto in essi per me c'è ben poco.
La vera azione invece si fa sentire perché non si fa mai da soli.
Non che ti costringe all'incontro quanto che è incontro.
Incontrare l'altro, incontrare altro nell'altro.
E quando cominci a percepire la presenza allora pian piano rinunci volentieri a ricostruire l'assenza.
martedì 25 marzo 2014
Privato volto
Privato volto
Credevo di aspettarti
ma non avevi la faccia
Te la sei sfilata qualche istante prima dell'incontro?
E chi aspetterò io ora?
Contro quale riva fermerò le mi onde?
Dentro quale terra affonderò il mio umore?
Giochi al massacro
Ti fingi uomo
E infrangi ogni volta di nuovo la mia verità
come un nonnulla
Come fai Tu a non essere mai tu?
Che mostro sei, che crudeltà è questa?
Chiamarci, farci credere di aver sentito
e poi deriderci perché ti avevamo creduto
mentre non siamo che orecchie di sabbia
che il sole scalda ma non lei sente.
A noi cui Tu hai tolto l'uomo
sentire è sfibrare
Svenare
Risuonare con l'essenza degli arbusti
e invidiarne le foglie
perché almeno quelle per un po' stanno attaccate al ramo.
Sapessi almeno se ti nascondi, se mi nascondi
Se è solo questione di tempo
Se tra qualche millennio verrai
Uomo
a dirmi che era vero. Che c'eri anche tu.
In questa cellulosa che piange
fino a polverizzarsi
mentre il vento ne approfitta per giocare ai cicloni.
Credevo di aspettarti
ma non avevi la faccia
Te la sei sfilata qualche istante prima dell'incontro?
E chi aspetterò io ora?
Contro quale riva fermerò le mi onde?
Dentro quale terra affonderò il mio umore?
Giochi al massacro
Ti fingi uomo
E infrangi ogni volta di nuovo la mia verità
come un nonnulla
Come fai Tu a non essere mai tu?
Che mostro sei, che crudeltà è questa?
Chiamarci, farci credere di aver sentito
e poi deriderci perché ti avevamo creduto
mentre non siamo che orecchie di sabbia
che il sole scalda ma non lei sente.
A noi cui Tu hai tolto l'uomo
sentire è sfibrare
Svenare
Risuonare con l'essenza degli arbusti
e invidiarne le foglie
perché almeno quelle per un po' stanno attaccate al ramo.
Sapessi almeno se ti nascondi, se mi nascondi
Se è solo questione di tempo
Se tra qualche millennio verrai
Uomo
a dirmi che era vero. Che c'eri anche tu.
In questa cellulosa che piange
fino a polverizzarsi
mentre il vento ne approfitta per giocare ai cicloni.
lunedì 24 marzo 2014
Viktor Basch
SUL RUOLO DELL’IMMAGINAZIONE
NELLA TEORIA KANTIANA DELLA
CONOSCENZA
traduzione di Giuseppe Grasso, Peppino Ingrassato per gli amici
Tutti i lettori
della Critica del Giudizio conoscono il
ruolo capitale che riveste l’immaginazione nell’estetica kantiana. Il giudizio
estetico è sostanzialmente caratterizzato dal libero gioco dell’immaginazione e dell’intelletto e il
piacere estetico consiste tutto nella consapevolezza di tale gioco. Ho cercato
di definire con precisione, nell’Essai
critique sur l’Esthétique de Kant, l’accordo estetico fra l’immaginazione e
l’intelletto e di differenziarlo da quello che Kant chiama «rapporto o accordo
normale» fra queste due «fonti del conoscere», accordo senza il quale, stando a
lui, ogni conoscenza, «ogni esperienza, per quanto volgare», non sarebbe concepibile.
Vorrei studiare da vicino, nelle pagine che seguono, questo accordo normale e
districare soprattutto l’attività propria che vi svolge l’immaginazione, uno
dei due elementi che lo costituiscono.
Nella Deduzione trascendentale della Critica della Ragion pura – lo sappiamo
– Kant ha parlato dell’immaginazione come della facoltà che collabora con l’intelletto
nell’atto del conoscere. Sappiamo inoltre che Kant, nelle prime due stesure
della Critica, ha dato due versioni
diverse di tale deduzione il cui valore reciproco è stato variamente
apprezzato. Io ritengo, con Schopenhauer e J. E. Erdmann, contrariamente alla
maggior parte dei critici, che la prima stesura sia da preferire alla seconda,
sia perché è più chiara e completa, sia perché la seconda, specialmente per quanto
attiene all’immaginazione, suppone la prima. In quest’ultima, effettivamente,
partendo dal fatto che la conoscenza è il risultato di una serie di sintesi che
raccolgono, collegano e uniscono i dati della sensibilità, Kant studia, in modo
particolareggiato, la tripla sintesi dell’apprensione nell’intuizione, della
riproduzione nell’immaginazione e della ricognizione nel concetto. Fatto
questo, egli ritorna sui suoi passi ed espone, nella terza sezione della Deduzione, «unificato e collegato», quanto aveva esposto separatamente e
isolatamente nella seconda sezione. Per farlo segue due vie: quella sintetica e
quella analitica. Da un lato parte dal principio di unificazione delle
rappresentazioni, l’appercezione pura, e scende, attraverso il gradino intermedio
dell’immaginazione trascendentale, all’intuizione empirica, mostrando che
questa non è possibile senza quella. Dall’altro lato fa il contrario, «dal
basso verso l’alto», parte cioè dall’elemento empirico, enumera le diverse
sintesi, – dell’apprensione, della
riproduzione o dell’associazione, della ricognizione o dell’affinità –
alle quali deve essere sottoposta quell’intuizione per diventare esperienza,
poi si chiede qual è la ragione dell’ultima sintesi, dell’affinità, e arriva
così, passando per l’immaginazione produttiva, all’appercezione pura. Nella
seconda stesura Kant sopprime del tutto l’esposizione analitica e si mette a
sviluppare a lungo l’esposizione sintetica che, nella prima versione, occupa
una parte assai ristretta. Così l’immaginazione, sia quella riproduttiva che
quella produttiva, appare completamente alla fine della seconda stesura e vi
appare come una sorta di Deus ex machina
che deve compiere uno dei compiti più delicati della conoscenza: la creazione
delle sintesi figurate dell’immaginazione che permettono alle categorie di
applicarsi agli oggetti dei sensi in generale. Lo stesso Kant sembra essersi accorto di tale
lacuna ed è forse allo scopo di colmarla che, in un’appendice a quel paragrafo
24 in cui aveva introdotto, senza averci pensato, la «sintesi trascendentale
dell’immaginazione», spiega infine, però troppo tardi e troppo succintamente,
cos’è l’immaginazione produttiva, qual è la sua sfera e quali sono le sue
creazioni in tale sfera.
La nostra
esposizione, perché risulti chiara e completa, dovrà quindi tener conto
attentamente della prima stesura senza trascurare per questo il capitolo che
Kant dedica all’immaginazione nella sua Antropologia.
I
All’inizio della
sua opera conoscitiva Kant aveva proclamato che ogni conoscenza trae origine da
due fonti: la capacità di ricevere
rappresentazioni – ricettività delle impressioni – o sensibilità, e la facoltà
di conoscere un oggetto per mezzo di quelle rappresentazioni – spontaneità dei
concetti – o intelletto.[1] Tale
spontaneità dell’intelletto consiste fondamentalmente nel fare, della diversità
fornitaci dalla sensibilità, una conoscenza, «che la percorre, la raccoglie e la
congiunge in qualche modo» e questo atto di percorrere, di raccogliere e di
unificare la diversità delle impressioni si chiama sintesi. Ora, la sintesi, in
generale, è «il semplice effetto dell’immaginazione, cioè di una funzione
dell’anima cieca ma indispensabile, senza la quale non avremmo alcuna
conoscenza ma di cui solo raramente abbiamo coscienza. L’atto che consiste nel
ricondurre ai concetti questa sintesi è la funzione propria dell’intelletto».[2]
C’è, in queste
definizioni preliminari, un’incertezza significativa su cui è necessario insistere.
Dopo aver fatto originare tutta la nostra conoscenza dalle due fonti della
sensibilità e dell’intelletto, senza menzionare minimamente l’immaginazione,
Kant fa consistere la funzione propria dell’intelletto nella sintesi, fa della
sintesi, cioè, la funzione dell’immaginazione e accorda all’intelletto il
compito di ricondurre quella sintesi dell’immaginazione ai concetti.
L’immaginazione, fin dall’inizio di tutta la teoria, ci appare non solo come
una terza fonte del conoscere, importante quanto l’intelletto, ma è essa,
inoltre, a compiere l’opera propria dell’intelletto – la sintesi – mentre
l’intelletto sembra dover rifare in modo cosciente il lavoro compiuto
spontaneamente e, per la maggior parte del tempo inconsapevolmente,
dall’attività creatrice dell’immaginazione.
È proprio questo
– lo vedremo – il vero pensiero di Kant. Prima si accinge a riconoscere, in
qualche modo ufficialmente, il ruolo dell’immaginazione come terza fonte della
conoscenza. «Ci sono» – scrive nella prima edizione – «tre fonti soggettive
della conoscenza, da cui originano la possibilità di ogni esperienza in generale
e della conoscenza degli oggetti di tale esperienza: la sensibilità,
l’immaginazione e l’appercezione».[3] Poi studia
la parte che ha l’immaginazione nell’opera sintetica della conoscenza. Questa
parte – avremo modo di vederlo – è della massima importanza. Per determinarla
nella sua estensione, per seguire l’immaginazione in tutte le sue incarnazioni,
si devono distinguere due grandi funzioni: quella riproduttiva e quella
produttiva.
Vediamo la
funzione riproduttiva. Innanzitutto l’immaginazione è la facoltà propria della
riproduzione e dell’associazione (Beigesellung):
ha il potere di rievocare, in loro assenza, oggetti percepiti precedentemente,
di risuscitare in noi il mondo delle intuizioni, indebolite certo, e scolorite,
ma così malleabili, così duttili, così plastiche che non siamo tenuti a
riprodurle servilmente nella struttura primitiva del loro coesistere o
nell’ordine originario del loro succedersi, e che possiamo combinare a nostro
piacimento, associandole e dissociandole, secondo le leggi imposte dal mondo
esterno e che estraiamo dalla parte più profonda del nostro essere, sia che sia
teso gioiosamente o tristemente, che si muova in questa o in quest’atra sfera
intellettuale, che sia sotto l’influenza di tale o tal’altro eccitante.
L’immaginazione riproduttiva comprende la memoria che ci dà, delle nostre
percezioni passate, immagini affievolite ma precise, l’associazione che
riproduce, secondo una regola costante, le rappresentazioni che si sono spesso
inseguite, ed infine l’immaginazione in senso stretto, chiamata da Kant
fantasia, che si svolge senza intralci nei sogni e che, sottoposta alla regola
dell’intelletto, crea l’arte.[4]
L’attività
sintetica dell’immaginazione non si ferma comunque qui. Le rappresentazioni
stesse, le percezioni primitive che l’immaginazione ha il compito specifico di
rievocare in loro assenza e di combinare, non sarebbero possibili senza di quella.
Kant parte dal fatto che la sensibilità ci fornisce solo intuizioni isolate e
separate mentre, nella nostra coscienza, esse appaiono sempre unite e
collegate. Occorre dunque che ai sensi, alla synopsis, si associ un principio di unificazione: conoscere – lo sappiamo – è fondamentalmente
l’atto di unificare, di collegare, che Kant chiama, nelle lettere a J. S. Beck,
Zusammensetzen.[5] Tale
principio di unificazione si manifesta con tre sintesi: la sintesi
dell’apprensione nell’intuizione, la sintesi della riproduzione
nell’immaginazione e la sintesi della ricognizione nel concetto.
Da un lato ogni
percezione racchiude una diversità, è composta da vari elementi, cioè a, b,
c, d. Per fare di tale molteplicità una percezione unica bisogna
poterne riunire gli elementi, percorrerne tutta la serie, cioè a + b
+ c + d, ed è questo che fa la sintesi dell’apprensione che, come ogni
sintesi, è una funzione dell’immaginazione. Inoltre, perché questa sintesi
possa aver luogo, perché noi possiamo ricondurre a unità gli elementi
molteplici e separati della percezione, cioè a + b + c + d,
è necessario, quando ci troviamo in d,
che abbiamo il potere di rappresentare a
+ b + c: è la sintesi della riproduzione nell’immaginazione.
L’immaginazione – lo si intuisce – non serve solo a rappresentare gli oggetti
in loro assenza, ad associare ad essi altre rappresentazioni che spesso li seguono
o li accompagnano e a realizzare un legame tale che, anche in assenza
dell’oggetto, una di quelle rappresentazioni consenta alla mente di passare
dall’una all’altra in base a una regola costante. Essa è, in realtà, «un
ingrediente necessario della percezione stessa».
E non è tutto.
Ciò che è vero per una percezione lo è ancor più per quell’insieme di
percezioni che chiamiamo oggetto. La sensibilità, in effetti, di cui Kant dice
spesso che ci «fornisce oggetti», è totalmente inadeguata a ricoprire quel
ruolo. Ci fornisce solo elementi di certi oggetti e non gli oggetti stessi. È
l’immaginazione che, in virtù di una necessità interna, combina impressioni relative al colore, al tatto e alle dimensioni
in una visione d’insieme che è quell’oggetto particolare, quell’albero, quella casa,
quell’uomo. Poi interviene l’intelletto a prendere coscienza della sintesi
inconsapevole a cui l’immaginazione ha sottoposto i vari elementi dell’oggetto
e a rendersi conto che la combinazione realizzata dall’immaginazione, sugli
elementi dell’intuizione, è non arbitraria ma necessaria e può essere riprodotta: «… così noi concepiamo un
triangolo come un oggetto mentre abbiamo coscienza dell’unione di tre linee
rette che seguono una regola in base alla quale una certa intuizione può essere
riprodotta».[6]
Infine, ciò che
vale per i particolari concetti di quell’albero, di quella casa e di quell’uomo
vale anche, ovviamente, per i concetti generali della casa, dell’albero,
dell’uomo. Di tutte le immagini dei vari alberi che abbiamo scorto si è formata
in noi un’immagine generale nella quale le differenze particolari si sono
cancellate e di cui l’immaginazione conserva solo i tratti specifici.
Quell’immagine generale esiste solo nella parola (e grazie alla parola) che è
come un centro di associazioni intorno al quale gravitano tutte le immagini che
sono servite nel formare il concetto al quale ognuno di noi associa più
precisamente quell’immagine che gli è più familiare. Anche qui l’intelletto si
limita a rifare coscientemente l’opera spontanea e inconsapevole
dell’immaginazione, non fa altro che rendersi conto che l’associazione
generalizzante è stata realizzata in base a una regola necessaria e che può, di
conseguenza, essere riprodotta.
Se l’intelletto
prende coscienza del modo in cui si formano quelle immagini, del procedimento
generale, del metodo seguito dall’immaginazione per crearle, l’immagine
generale diventa uno schema. Solo che questi schemi non appartengono più
all’immaginazione riproduttiva ma a una forma dell’immaginazione cui abbiamo
riservato lo studio. Concludiamo dicendo che, da un capo all’altro della
sintesi che elabora la conoscenza, dalla percezione più umile al concetto
generale più inclusivo, l’immaginazione riproduttiva è come un filo che serve a
collegare, è come un cimento necessario ad agglomerare quegli elementi che,
senza di essa, resterebbero sparsi e separati e non potrebbero costituire una
conoscenza.
II
Abbiamo detto
prima che, perché la conoscenza sia possibile, è necessario che la mente
sottoponga gli elementi che le sono forniti dalla sensibilità alla tripla
sintesi dell’apprensione nell’intuizione, della riproduzione nell’immaginazione
e della ricognizione nel concetto. È quest’ultima che dobbiamo affrontare
adesso perché, senza di essa, le prime due sarebbero vane. In effetti, perché
possa esserci conoscenza, occorre, in primo luogo, che tutti gli elementi riuniti
nell’immagine siano da noi riconosciuti come identici e, in secondo luogo, che
tale collegamento non formi un ammasso incoerente ma un concatenarsi
determinato, un concatenarsi necessario, ovvero che ci sia una regola della
riproduzione e della coordinazione delle rappresentazioni della riproduzione, regola
che Kant chiama affinità delle rappresentazioni. Ciò che rende possibile la
sintesi della ricognizione nel concetto e nell’affinità delle rappresentazioni
è la coscienza pura, l’appercezione trascendentale. È la consapevolezza che
attraverso tutti i cambiamenti subiti il nostro Io rimane uguale – ovvero la
certezza che tutte le coscienze empiriche sono collegate in una sola
autocoscienza – a spiegare la ricognizione nel concetto, a fornire
all’immaginazione la regola in base alla quale produce le immagini. Si tratta
ora di chiedersi se la coscienza pura, se l’appercezione trascendentale, il
principio supremo del nostro pensiero in generale non richieda anch’essa un
intervento dell’immaginazione.
Per discutere di
tale questione dobbiamo uscire dalla sfera dell’immaginazione riproduttiva ed
entrare in quella, infinitamente più elevata, dell’immaginazione produttiva. Finora
ci siamo occupati di sintesi empiriche dell’immaginazione. L’immaginazione
doveva elaborare e collegare in immagini d’insieme le intuizioni disseminate nello
spazio e nel tempo. La materia su cui lavorava era data empiricamente. Le
regole in base alle quali realizzava, è vero, quelle sintesi erano necessariamente
fondate anche sulle sintesi empiriche, sull’attività sintetica originaria della
mente, erano cioè categorie. Il nostro mondo intuitivo, in realtà, è già
ordinato e organizzato in base alle categorie. Quando, riflettendo sul mondo
delle intuizioni, riconosciamo la sua regolarità, non facciamo altro che
prendere coscienza delle leggi secondo le quali abbiamo noi stessi costruito,
inconsapevolmente, quel mondo intuitivo. Ritroviamo in quel mondo le categorie
e possiamo fondare, grazie ad esse, la scienza della natura, perché ve le
abbiamo messe prima noi stessi.[7]
Perciò le leggi e le regole in base alle quali l’immaginazione riproduttiva
elabora la materia bruta che le viene fornita dalla realtà esterna sono a priori, superiori e anteriori
all’esperienza.
Adesso, però,
bisogna fare un passo in avanti. Nella sfera dell’immaginazione produttiva non
sono solo le regole con cui essa mette in atto le sintesi date a priori, è la materia stessa su cui
opera a essere data a priori,
indipendentemente da ogni esperienza. A ciascuna delle tre sintesi empiriche
esaminate prima corrisponde una sintesi a priori. Innanzitutto alla sintesi
dell’apprensione empirica si rifà una sintesi dell’apprensione a priori: «Questa
sintesi dell’apprensione deve anche essere praticata a priori, cioè rispetto alle rappresentazioni non empiriche. Senza
di essa, infatti, non potremmo avere a
priori né le rappresentazioni dello spazio né quelle del tempo, che sono dovute
solo alla sintesi degli elementi eterogenei forniti dalla sensibilità nella sua
ricettività originaria».[8] Parallelamente,
alla sintesi della riproduzione empirica corrisponde una sintesi della
riproduzione trascendentale, pura, a priori. «Se allora possiamo provare che
anche le nostre rappresentazioni a priori
più pure non ci procurano nessuna conoscenza, a meno che non contengano una
unificazione di elementi eterogenei che rende possibile una sintesi completa
della riproduzione, ne consegue che questa sintesi dell’immaginazione è
fondata, persino prima di ogni esperienza, su principi a priori: perciò è necessario ammetterne una sintesi trascendentale
pura che serva essa stessa da fondamento alla possibilità di ogni esperienza,
in quanto quest’ultima suppone necessariamente la riproducibilità dei
fenomeni».[9] Ci
sono nello spazio e nel tempo, prima di ogni esperienza, una serie di forme e
di rapporti possibili e quasi latenti: è necessario, se vogliamo rappresentare
quelle forme e quelle figure, costruirle, collegarne gli elementi, disegnare la
linea, tracciare il triangolo, e via di seguito. Quelle forme stesse possono
essere combinate con altre, e Kant pare concepire, indipendentemente e prima della
geometria derivante dall’astrazione e dalla generalizzazione delle forme
percepite nella realtà, «una specie di geometria interiore in cui l’Io
costruisce liberamente, in base alle regole immanenti della coscienza pura, un
mondo di figure».[10] Il mondo dello spazio e del tempo non ci è
dato ma è costruito da noi in base a regole a
priori. Quando diamo forma alle immagini intuitive esterne la cui materia è
dovuta alla sensazione noi costruiamo insieme lo spazio e il tempo come
intuizioni a priori. La materia disorganizzata che ci fornisce la sensibilità
produce una sorta di choc che incita
l’immaginazione ad operare le sue sintesi. Queste sintesi sono empiriche e
riproduttive in quanto provocate immediatamente dallo choc esterno. Noi
sappiamo però che anche l’attività empirica e riproduttiva dell’immaginazione
non è possibile se non è accompagnata dall’attività a priori e produttiva di
questa facoltà. La riflessione ci insegna a isolare queste due manifestazioni
dell’immaginazione e a capire che l’immaginazione produttiva è la condizione
indispensabile per l’immaginazione riproduttiva. Questa immaginazione
produttiva crea degli abbozzi, degli schizzi, degli schemi – volendo usare il
termine giusto, sebbene lo stesso Kant se ne sia servito solo per le sintesi
del tempo – grazie ai quali l’immaginazione empirica è guidata nella
costruzione delle immagini sensibili.
Detto questo,
torniamo alla questione dell’appercezione trascendentale per chiederci se esige
l’intervento dell’immaginazione. L’appercezione trascendentale, la coscienza
dell’identità totale di noi stessi in rapporto a tutte le rappresentazioni di
cui possiamo avere conoscenza, come di una condizione necessaria di ogni
rappresentazione, qualunque essa sia, è il principio trascendentale dell’unità a cui il nostro pensiero riconduce
gli elementi eterogenei delle nostre rappresentazioni. Tale unità è sintetica,
come ogni unità. Lo abbiamo detto e lo ripetiamo con Kant: «… non possiamo
percepire l’unità sintetica – die Zusammensetzung – in quanto data ma è
necessario che la creiamo noi stessi. Per rappresentarci qualcosa di unitario,
è necessario che operiamo l’unificazione: wir
müssen zusammensetzen, wenn wir etwas als zusammengesetz vorstellen sollen».[11]
L’appercezione trascendentale «suppone quindi o racchiude sempre una sintesi»[12] e
questa sintesi, ovviamente, è l’immaginazione trascendentale, l’immaginazione
produttiva che la crea. Resta il problema di sapere in che cosa essa consiste.
Il problema è
sicuramente il più spinoso di tutta la teoria kantiana della conoscenza. Anche
quei critici, come Hölder, che si sono addentrati più profondamente nel
pensiero di Kant, non sembrano averlo risolto pienamente. Del resto lo stesso
Kant, volendo spiegare a J. S. Beck la suprema attività sintetica
dell’intelletto, ammette che non ci si raccapezza più nemmeno lui e teme che il
suo interprete non riesca a mettere in luce i fili tanto sottili il cui
intreccio costituisce la nostra facoltà di conoscere.[13]
Un’ammissione fatta per renderci prudenti e modesti.
L’appercezione
trascendentale è – abbiamo detto – la coscienza dell’identità totale di noi
stessi. Come è possibile tale identità? Innanzitutto, perché essa si realizzi,
è necessario che tutte le rappresentazioni abbiano un rapporto necessario con
una possibile coscienza empirica, dal momento che, senza quella coscienza, non
esisterebbero per noi. Inoltre, perché ci sia identità dell’Io, è necessario
che le nostre varie coscienze empiriche siano esse stesse collegate in una sola
autocoscienza ed è in tale atto di unificazione delle nostre coscienze
empiriche in una sola e identica coscienza che consiste la sintesi
trascendentale dell’immaginazione. «L’unità trascendentale dell’appercezione si
riferisce dunque alla sintesi pura dell’immaginazione come a una condizione a priori della possibilità di ogni
collegamento di elementi disparati in una conoscenza unificatrice… Il principio
dell’unità necessario della sintesi pura (produttiva) dell’immaginazione è
dunque, prima dell’appercezione, il
fondamento della possibilità di ogni conoscenza, in particolar modo dell’esperienza….
L’unità trascendentale della sintesi dell’immaginazione è la forma pura di ogni
conoscenza possibile ed è perciò la condizione della rappresentazione a priori di tutti gli oggetti possibili di
esperienza».[14]
Senza
l’immaginazione produttiva – lo si capisce – l’appercezione trascendentale
stessa non sarebbe concepibile. Nel supremo atto sintetico del pensiero, così
come nelle sue attività inferiori, l’immaginazione guida l’intelletto, il quale
è, come dice Kant, «l’unità
dell’appercezione in rapporto alla sintesi dell’immaginazione».[15]
Tuttavia il
ruolo dell’immaginazione produttiva, condizione indispensabile per
l’appercezione trascendentale, non è ancora spiegato sufficientemente. Tale
ruolo, se osserviamo con attenzione, è duplice:
l’immaginazione produttiva non è solo la guida ma è anche l’interprete, il
tramite dell’intelletto. Davanti a noi si estende il mondo esterno, con il suo
turbinio di immagini sparse e inorganiche che vengono da ogni parte ad assalire
i sensi. In tale ammasso incoerente l’immaginazione riproduttiva mette ordine:
crea la percezione, sintesi di impressioni, l’immagine, sintesi di percezioni e
il concetto, sintesi di immagini. Poi interviene l’intelletto empirico che
riproduce consapevolmente il lavoro spontaneo e inconsapevole
dell’immaginazione e sa che queste sintesi possono essere riprodotte: il
concetto di un oggetto nasce quando abbiamo una chiara coscienza della sintesi
dei suoi elementi basata sulla regola per cui una tale sintesi può essere
riprodotta. Alla fine interviene l’intelletto puro che consiste esclusivamente
nell’io fisso e permanente dell’appercezione pura, con le sue leggi e le sue
regole: le categorie. La difficoltà sta nel capire in che modo i due mondi che
abbiamo distinto, quello empirico o dell’immaginazione riproduttiva e quello
dell’intelletto puro si accordano e coincidono. Non mi si venga a obiettare che
è questo il problema generale posto e risolto dalla deduzione trascendentale
dicendo che il mondo empirico è possibile solo grazie all’intelletto puro,
all’appercezione trascendentale e che, perciò, deve essere conforme alle sue
leggi, alle categorie. La deduzione trascendentale dimostra sì che il mondo
empirico deve essere conforme al mondo dell’intelletto puro ma non dimostra come gli sia conforme, come l’io fisso e permanente dell’appercezione
possa applicarsi alle sintesi sensibili dell’immaginazione riproduttiva. Le
sintesi dell’immaginazione riproduttiva sono empiriche e sensibili mentre
l’appercezione trascendentale è pura, a priori, rigorosamente intellettuale. In
che modo questi due mondi così diversi possono accordarsi?
Per realizzare
un simile accordo ci vuole ovviamente un terzo mondo che ci permetta di passare
dalla sfera dell’esperienza sensibile a quella dell’intelletto puro. Questo terzo
mondo, in realtà, noi lo conosciamo ed è il mondo delle forme e delle figure
che l’immaginazione produttiva costruisce liberamente nello spazio e nel tempo.
Ogni costruzione è sintesi e l’unità che presiede a questa sintesi è l’unità
della sintesi trascendentale dell’immaginazione pura. Tali sintesi, adesso, non
sono prodotte a caso ma secondo certe leggi e certe regole. Tutto il lavoro
dell’immaginazione pura è originariamente libero, spontaneo e, in gran parte se
non per intero, inconsapevole. Arriva però il momento in cui il pensiero prende
coscienza di questo lavoro, in cui rifà il cammino dell’immaginazione e allora
l’unità della sintesi trascendentale dell’immaginazione diventa l’unità
dell’appercezione trascendentale, e quelle leggi e quelle regole in base alle
quali l’unità è stata realizzata sono riconosciute come categorie.
L’immaginazione
produttiva è dunque l’intermediario che cercavamo. «C’è dunque in noi
un’immaginazione pura come facoltà fondamentale dell’anima umana, che serve a priori da principio a ogni conoscenza.
Per mezzo di questa facoltà, da una
parte, colleghiamo i vari elementi dell’intuizione e, dall’altra, li riconduciamo
alla condizione dell’unità necessaria dell’appercezione pura. I due termini
estremi, la sensibilità e l’intelletto, devono necessariamente accordarsi per mezzo di questa funzione trascendentale
dell’immaginazione».[16] L’io
fisso e permanente dell’appercezione trascendentale, a priori e puramente intellettuale, non può mai uscire da sé e
applicarsi, senza intermediario, al mondo dell’esperienza. È allora che
intervengono le sintesi dell’immaginazione produttiva: da un lato sono sensibili
come le sintesi prodotte dall’immaginazione con i dati del mondo sensibile, dall’altro
sono pure e a priori come
l’appercezione trascendentale. Così esse consentono bene il passaggio da un
mondo all’altro.
Se adesso
vogliamo raffigurarci nel suo d’insieme l’atto conoscitivo, secondo Kant, ecco
in cosa ci sembra consistere. Il mondo esterno, messo in contatto con un essere
senziente, produce una sorta di choc che è la condizione prima di ogni
conoscenza. Con questo choc entrano in noi, attraverso il canale dei sensi,
impressioni di ogni ordine: impressioni relative al colore, al suono, al tatto,
al gusto e all’olfatto. Tali impressioni isolate e sparse vengono riunite, raggruppate
e organizzate dall’immaginazione che ne fa delle percezioni e delle immagini.
Però tale riunione, tale raggruppamento e tale organizzazione sarebbero vani se
non fossero accompagnati da un lavoro di sintesi ulteriore e di grado
superiore. Gli elementi che l’immaginazione riproduttiva organizza li
proiettiamo necessariamente nello spazio e nel tempo, cioè li collochiamo in successioni
di elementi coesistenti e successive. Nello spazio e nel tempo, però, si trovano
già, belle e pronte, le sintesi e le forme che l’immaginazione vi ha disegnato
in base alle categorie. È sulla base di queste forme che noi costruiamo adesso,
in modo definitivo, il mondo esterno, è sulla base delle regole dell’unità
dell’immaginazione produttiva e delle categorie che plasmiamo la natura quale
la concepisce il pensiero scientifico.
III
Possiamo
misurare adesso il ruolo immenso che riveste l’immaginazione nella teoria
kantiana della conoscenza. È la pioniera, la guida dell’intelletto empirico, è
la guida e l’interprete dell’intelletto puro. L’intelletto non fa che seguire
le sue ispirazioni, rifà il cammino che l’incomparabile artista della
conoscenza si apre liberamente e spontaneamente. Ognuno di questi passi
costituisce un progresso sostanziale nell’opera sintetica del conoscere: solo
dopo avergli aperto il cammino, l’intelletto osa impegnarvisi stabilmente. O
meglio, per dirlo fuor di metafora, Kant distingue due tipi di immaginazione:
quella riproduttiva e quella produttiva a cui fa corrispondere due forme di
intelletto: quello empirico e quello puro. L’intelletto empirico prende
coscienza della sintesi riproduttiva dell’immaginazione, riconosce nella natura
le leggi che le costruzioni inconsapevoli dell’immaginazione vi hanno messo.
L’intelletto puro prende coscienza della sintesi trascendentale
dell’immaginazione e delle regole immanenti in base alle quali questa è stata
realizzata e creata, sia per designare l’essenza delle forme e delle figure
liberamente prodotte dall’immaginazione, sia per designare quelle regole, un
sistema di concetti puri: le categorie. L’immaginazione, dunque, non è altro
che l’intelletto inconsapevole e l’intelletto non è altro che l’immaginazione divenuta
cosciente di se stessa. In quanto l’Io non è sottoposto alle impressioni del
mondo esterno ma agisce spontaneamente è intelletto. Quando produce
inconsapevolmente alcune immagini d’insieme si chiama immaginazione. Quando
produce consapevolmente concetti si chiama intelletto nel senso proprio del
termine. Quando la spontaneità dell’io – inconsapevole o cosciente, immaginativa
o intellettiva – è esercitata sulla materia che le fornisce la ricettività
l’intelletto è empirico. Quando, indipendentemente dalla ricettività e dalle
sue impressioni, non fa che rappresentare le proprie leggi – intuitivamente con
gli schemi o concettualmente con le categorie – è puro e a priori.[17]
L’accordo
«normale» dell’intelletto e dell’immaginazione risulta necessariamente dalla teoria della conoscenza di Kant così
come l’abbiamo esposta. Poiché l’immaginazione e l’intelletto sono due
manifestazioni sempre parallele della spontaneità dell’Io, sarebbe assurdo se
non si accordassero. La teoria dello schematismo non è altro che tale accordo applicato
alle categorie. In tutti i gradi dell’attività dell’Io corrispondono – lo
abbiamo visto – alle sintesi dei concetti (synthesis
intellectualis) sintesi dell’immaginazione (synthesis speciosa), e sono sempre le sintesi figurate che
precedono le sintesi intellettuali. In ambito empirico, al concetto particolare
derivante dal paragone degli individui e dall’astrazione delle qualità
identiche di quegli individui, designati dal nome, corrisponde non un’immagine
ma uno schema, ossia un prodotto della facoltà empirica dell’immaginazione
riproduttiva. Questo schema, questa specie di immagine generale nella quale,
senza l’intervento consapevole del nostro intelletto, sono venute a fondersi
tutte le differenze individuali, precede il concetto che nasce solo quando
prendiamo coscienza della regola in base alla quale la nostra immaginazione può
rappresentarsi, in modo generale, la figura di un essere o di un oggetto senza
doversi assoggettare a qualche forma particolare che ci offre l’esperienza, o
anche a qualche possibile immagine che possiamo mostrare in concreto.[18]
Ciò che è vero
per i concetti empirici lo è anche per i concetti dell’intelletto puro, per le
categorie. Abbiamo mostrato come, senza l’intervento dell’immaginazione
produttiva, l’appercezione trascendentale e le sue leggi, le categorie, sintesi
puramente a priori e intellettuali, non potrebbero mai applicarsi agli oggetti
dell’esperienza, sintesi empiriche e sensibili. Abbiamo visto che questa
immaginazione produttiva crea delle sintesi figurate che corrispondono alle
sintesi intellettuali dell’intelletto puro propriamente detto, cioè
dell’appercezione trascendentale e delle sue leggi, le categorie, sintesi figurate
che servono da intermediarie tra l’esperienza da una parte e dell’appercezione
e delle sue leggi dall’altra. Queste sintesi figurate sono gli schemi dei
concetti puri dell’intelletto, delle categorie, nello stesso modo in cui le
immagini generali sono gli schemi dei concetti sensibili.
Ciò che ha ostacolato
la comprensione della teoria dello schematismo è che Kant, da una parte, ha trattato
gli schemi in una speciale sezione, l’Analitica
dei Principi, senza indicare l’identità degli schemi e delle sintesi
figurate della Deduzione trascendentale,
e, dall’altra, ha scelto, quale strumento della sussunzione dei fenomeni sotto
le categorie, solo il tempo, senza occuparsi dello spazio. Tuttavia noi
sappiamo bene che ci sono anche gli schemi dello spazio: quel mondo di figure e
di rapporti che l’immaginazione produttiva costruisce liberamente in base alle
sue leggi immanenti. Se Kant, per incarnare gli schemi in generale, ha scelto
il tempo anziché lo spazio, è perché il tempo include lo spazio. Lo spazio,
infatti, come forma pura di ogni intuizione esterna, serve come condizione a priori solo ai fenomeni esterni,
mentre, «siccome tutte le rappresentazioni, che abbiano o meno come oggetti
cose esterne, appartengono, sempre per se stesse, in quanto determinazioni
della mente, a uno stato interiore, e siccome tale stato interiore, sempre
sottoposto alla condizione formale dell’intuizione interna, rientra pertanto
nel tempo, il tempo è la condizione a
priori di ogni fenomeno in generale, la condizione immediata dei fenomeni
interiori della nostra anima e, per ciò stesso, la condizione mediata di tutti
i fenomeni esterni».[19] È
pur sempre vero che, accanto agli schemi del tempo, più consoni, per la loro
generalità, a dirigere l’applicazione delle categorie – che sono le leggi più
generali del pensiero – al mondo dell’esperienza, ci siano gli schemi dello
spazio, e che il tempo stesso, inoltre, possa essere rappresentato solo sotto
forma di spazio. «Noi non possiamo nemmeno rappresentarci il tempo», dice Kant,
«senza tracciare una linea retta (che
è la rappresentazione esteriore e figurata del tempo)»,[20] di
modo che se il tempo, come forma generale delle intuizioni sia interne che
esterne, fornisce gli schemi delle categorie, è possibile dire, invece, che lo
spazio, in quanto origine stessa di tutte le figure, è la rappresentazione
figurata, cioè lo schema del tempo.
Lo schematismo,
dunque, è una manifestazione particolare dell’accordo generale dell’immaginazione
e dell’intelletto quale si evince da un
attento studio della Deduzione
trascendentale. Gli schemi sono la creazione più alta di quell’immaginazione
che, nella sua duplice funzione riproduttiva e produttiva, è la guida e
l’interprete sia dell’intelletto empirico che dell’intelletto puro. In fondo –
ed è questa la conclusione finale del nostro lavoro – l’immaginazione non è altro
che il doppio, il Menecmo dell’intelletto. Quando la spontaneità sintetica
dell’Io è inconsapevole abbiamo l’immaginazione, quando invece è consapevole
abbiamo l’intelletto.
SUL POTERE ESPRESSIVO DELLA MUSICA
Tutti gli
individui che abbiano deciso di studiare un musicista devono esserci cimentati,
fin da subito, con una preliminare difficoltà, con l’impossibilità, cioè, di
restituire a parole una pagina di musica. Come tradurre – si saranno chiesti – con
segni scoloriti, sfioriti e desensibilizzati, ognuno con un senso rigorosamente
definito e rivolto non a individui ma a province dell’essere; come tradurre –
con tale strumento grossolano – melodie, armonie e timbri? È possibile analizzare
tecnicamente un’opera, scoprire il motivo che ne costituisce la genesi e
mostrare in che modo quella genesi si è sviluppata, con quali toni il tema si è
presentato inizialmente alla mente del musicista, con che modulazioni egli lo
ha trasmesso, quali motivi secondari vi ha associato prima di passare a un
altro motivo. Queste analisi, certo, sono utili e anche necessarie. Ma sono sufficienti?
Ogni musica si rivolge non solo agli specialisti, esperti nella grammatica e
nella sintassi del particolare linguaggio di cui fa uso, ma a un pubblico che
ignora, per la maggior parte, ogni cosa della tecnica musicale. E tuttavia quel
pubblico affolla i concerti, ascolta attentamente opere lunghe e difficili la
cui profonda comprensione richiede, alla prima audizione, uno sforzo notevole
anche per i professionisti. E non li ascolta solo in modo superficiale, tanto è
vero che numerosi uditori li seguono con passione, li vivono con tutto ciò che
c’è in essi di forza emotiva. Sottoscrivo appieno – avremo modo di vederlo – la
penetrante formula di Eugène Delacroix: «Ciò che pone la musica al di sopra
delle altre arti è il fatto di essere
completamente di convenzione; eppure
è un linguaggio completo, basta entrare nella sua sfera» (Journal, 20 gennaio 1865). Resta il
fatto che anche quelli che non lo parlano capiscono – o credono di capire –
quel «linguaggio completo». Per questo è necessario che la musica, pur essendo
principalmente ascoltata dagli iniziati, possa essere compresa con mezzi
particolari e giungere, al di là della comprensione, all’anima dei non
iniziati. Quali sono questi mezzi? La musica esprime qualcosa al di fuori del
«Bello musicale» propriamente detto? Cos’è questo qualcosa e, se esiste, si può
tradurre in parole? È quanto mi sono chiesto cercando di interpretare la musica
di Schumann ed è quanto vorrei esporre brevemente ai lettori.
* *
*
La musica è il linguaggio
stesso del sentimento: così è stato detto dalla maggior parte dei vecchi
estetologi musicali e da tutti gli appassionati di musica. Se le arti plastiche
– scultura e pittura – fanno appello, in quanto raffigurazioni e non imitazioni
della natura, alla nostra mente che ricostruisce, paragona e identifica, al di
là del piacere sensuale che viene dal gioco delle forme, dei colori e delle
luci; se la poesia – persino la poesia lirica, anch’essa evocante esseri e
accadimenti che le sono stati forniti dalla realtà presente o passata – sollecita
l’immaginazione, l’intelletto e la ragione dell’uditore o del lettore, ci sono invece
due arti che non hanno modelli al di fuori di noi e le cui creazioni, per
essere capite, non sembrano aver bisogno del concorso delle nostre energie strettamente
intellettuali: l’architettura e la musica. Lascio fuori dalla mia ricerca
l’architettura e prendo in esame solo la musica. Se la musica – come qualcuno
ha detto – non rappresenta nulla di
quanto sta al di fuori di noi, essa esprime
ciò che è in noi, ciò che siamo noi: la nostra vera e profonda vita di cui la
mente e la volontà sono solo i tramiti infedeli, le nostre gioie e i nostri dolori,
il benessere e il malessere, gli slanci e le distensioni, le tempeste e le bonacce,
tutto ciò che freme, rabbrividisce e palpita in noi, tutte le nostre
inclinazioni e le nostre passioni:
l’amore, l’odio, il terrore e la pietà. Un simile modo di esprimersi è diretto,
spontaneo, immediato, irresistibile, capito universalmente. Come ha scritto
Richard Wagner in L’Œuvre d’art de
l’Avenir: «L’organo del cuore è il suono e il suo linguaggio artistico
cosciente è la musica» [«Das Organ des
Herzens ist der Ton, seine künstlerish bewusste Sprache, die Tonkunkst»]
Ebbene, a
partire dal celebre libro di Hanslick, Von
Musicalish-Scönen (Del Bello musicale),
del 1854, è impossibile attenersi alla concezione della musica intesa come
«espressione dei sentimenti». Il musicologo austriaco ha mostrato con una logica
impietosa, contrariamente a quanto si era creduto per molto tempo, che la musica
– sia quella vocale che quella strumentale – è assolutamente incapace di esprimere direttamente un contenuto
sentimentale, qualunque esso possa essere. Non solo non esiste espressione
diretta di una passione come l’amore, che implica sempre determinate
rappresentazioni, – l’immagine dell’amata, degli ostacoli che la separano dall’amante,
delle gioie o delle delusioni che l’attendono – ma anche di quei sentimenti
elementari le cui oscillazioni rappresentano il sottofondo della nostra vita
psichica: gioia e dolore, benessere e malessere. Ricordatevi delle cantilene
più appassionate – «Laisse-moi, laisse-moi contempler ton visage»,[21] la Frühlingsnacht di Schumann, l’Erotik e il Je t’aime di Grieg – e chiedetevi, tralasciando le parole o il
titolo, se esiste davvero qualcosa in comune tra la frase che canta nella
vostra memoria e l’invincibile istinto che da sempre fa affrontare i sessi in
una lotta tanto disperata e dolce insieme.
Rievocate le marce funebri di Beethoven e di Chopin, il tragico In der Nacht di Schumann, in cui le forze scatenate della natura e le
energie ribelli di un’anima umana sembrano gridare l’angoscia insondabile,
oppure, dal lato opposto, quella pagina luminosa di Mozart dove esseri eterei
sembrano planare fra le allegrie e le beatitudini; poi studiate il rapporto tra
i suoni e il contenuto che date loro. Vi accorgerete che quel rapporto non
esiste o che, quanto meno, non è diretto.
La musica, a dispetto di quanto hanno scritto molti pensatori e di quanto
sentono o credono di sentire molti amatori, esprime direttamente solo se stessa, solo il Bello che le è proprio, un
contenuto che non è mutuato da nessun’altra sfera se non dall’essere altro che
è la sfera dei suoni. Le affinità elettive di questi suoni, i loro antagonismi,
i loro connubi e divorzi, le loro battaglie e riconciliazioni, le loro ascese e
cadute, le loro fughe travolgenti e le loro soste, le luci che le illuminano e
le tenebre che le avvolgono a seconda che passino da una tonalità all’altra, da
uno strumento all’altro: questo è quanto esprime direttamente la musica. Pretendere
di far penetrare la nostra umanità pesante e brutale in quella sfera aerea, in
cui tutti gli elementi sono leggiadri, diafani e impalpabili, significa
profanarne la purezza.
Le prove fornite
da Hanslick e da altri sono innumerevoli e perentorie. Taluni passaggi maestosi
del Messia, dove sembra respirare la
pietà più accesa, sono stati mutuati da Händel a due duetti erotici composti su
madrigali di Mauro Ortensio. Certe musiche eseguite nelle chiese italiane, dove
i fedeli sentono incarnati i loro slanci verso l’Altissimo, sono arie d’opera,
banalmente temporali, di Rossini, Bellini, Donizetti e Verdi. A un’aria alata
di Mozart – come l’allegro fugato dell’ouverture del Flauto magico – uno spiritoso ha adattato così bene un quartetto
vocale di rigattieri coinvolti in un litigio
aspro e chiassoso che sembra davvero non aver avuto altra destinazione.
Io stesso, in
due occasioni, nelle mie conferenze pratiche della Sorbona, nel 1919 e nel
1921, ho fatto alcune esperienze sul
potere espressivo della musica, la prima volta con 76 studenti e studentesse,
la seconda con 67. Il procedimento è stato semplice: ho suonato o fatto suonare
un brano musicale e ho chiesto ai miei ragazzi
di raccontare, per quanto possibile fedelmente, quello che provavano. Gli
studenti che conoscevano il brano dovevano chiaramente dirlo. I risultati ottenuti, sebbene scontati in anticipo, mi hanno
sbalordito. Ne do alcuni esempi:
Die Freude ist in Gott, di Bach: «Una
danza triste e misurata, come un minuetto ballato da persone dagli occhi vaghi,
in un parco alla francese». – «Danza del Settecento che evoca Versailles
all’epoca della Pompadour». - «Strazi mortali. Si avverte una preoccupazione
triste, sempre la stessa, che ritorna instancabilmente. Del resto, nessun
grande sforzo per sfuggirvi».
La Preghiera di Elisabetta, dal Tannhäser: «Danza elegiaca di un paese
nordico, forse scandinavo, o canto d’amore». – «Serenità. Felicità. Primavera.
Giovinezza». – «Brano ignoto di autore forse tedesco. Canto eroico. Sentimenti
solidi e semplici».
Pauvre orphelin, di Schumann: «Autore
ignoto della Scuola italiana, melodrammatico e sentimentale. L’amore sfortunato
che si tramuta in disperazione». – «Gioia calma, profonda, serena». – «Tranquillità d’animo di una vita semplice».
– «Meditazione e raccoglimento».
Potrei
moltiplicare gli esempi, raccontare come, dopo aver fatto suonare la Marcia funebre di Chopin arrangiata a
mo’ di valzer in tre tempi ritmati, un certo numero di miei uditori ha creduto
di riconoscere «una danza allegra, di primavera, che esprime la fedeltà
dell’amore giovane». Ma le poche cose citate dai miei test dimostrano
ampiamente come la musica sia inadeguata ad esprimere direttamente contenuti
sentimentali.
Come fa però la
musica a sfuggire al proprio àmbito per penetrare nella sfera del cuore umano e
per destarvi dei sentimenti? Come fa il suo linguaggio «completo e chiuso», comprensibile
solo da pochi adepti, a diventare lingua universale? Vediamo. Se la musica non
sa esprimere il contenuto dei
sentimenti, essa sa restituirne fedelmente, in ogni caso, il dinamismo.
I suoni sono caratterizzati,
principalmente, dall’altezza, dall’intensità, dal ritmo – nel senso più ampio
della parola, in quanto implica la misura – e dal timbro. Un suono riecheggia
al nostro orecchio e vi produce, per se stesso, una sensazione accompagnata da
un sentimento gradevole o sgradevole. Poi il suono sale e scende, sale ancora e
scende di nuovo: disegna una melodia. Un suono è associato ad altri suoni,
consuona o dissuona con essi, passa attraverso tonalità ben precise ed ecco
l’armonia. Un altro si dilata o si assottiglia, assume un certo rilievo o si
sfuma, colpisce il nostro orecchio con uno choc massiccio o lo sfiora come una
carezza. I suoni si lanciano al seguito degli altri affrettandosi o
attardandosi, si susseguono regolarmente, in un dato tempo, potenti o fragili,
colorati o pallidi, in breve accentuati o non accentuati, ed ecco il campo
della misura e del ritmo. Il suono proviene da una corda che vibra, da una
corda vocale umana o animale; emana dal respiro della bocca o da uno schiaffo; fuoriesce
da un pezzo di legno o di metallo o da una pelle che colpiamo ed ecco il
timbro.
Inoltre questo
mondo dei suoni, in tutte le manifestazioni in cui li abbiamo distinti e che
agiscono tutte di concerto, non sta mai fermo ma è in continuo divenire, in un
moto perpetuo. I suoni passano, senza sosta, da un tono all’altro, da un grado
d’intensità all’altro, da un tempo
all’altro. Tutto vi scorre, fluisce, fugge. È un mare dalla marea crescente e
discendente i cui flutti si addensano e si espandono per avvinghiarsi e sciogliersi
di nuovo, si impennano, si ergono e si distendono, si ammucchiano in enormi
ondate di fondo o si disperdono in mille goccioline, poi scivolano,
s’incurvano, si premono, si sfilacciano e vanno pian piano a morire sul velluto
della sabbia.
Ogni variazione
di suono colpisce la nostra sensibilità in modo particolare e inesplicabile. Ci
troviamo di fronte a fenomeni elementari la cui causa ci sfugge. La reazione
della nostra affettività a quel suono, a quel timbro, a quella tonalità
maggiore o minore rimane per noi misteriosa quanto quella data a quel colore o
a quell’insieme di colori. La sensazione e la risonanza emozionale della sensazione
costituiscono un enigma ancora irrisolto.
La cosa invece
non enigmatica è la reazione di quell’affettività al movimento dei suoni, alla direzione e all’ampiezza di quel
movimento. Il fatto è che anche la nostra sensibilità affettiva non sta mai
ferma ed è in continuo divenire, in un moto perpetuo. Sensazioni, impressioni e
affezioni si susseguono senza sosta nella nostra coscienza; noi passiamo
continuamente dal benessere al malessere, dalla tensione alla distensione,
dall’eccitazione alla depressione. Distoglietevi per un attimo dalla vita
esterna e concentrate lo sguardo su voi stessi. Potrete constatare
quell’andirivieni ininterrotto, il fluire e il defluire dei vostri stati di
coscienza. Anch’essi si attirano e si respingono, si uniscono e si separano, si
sposano e si ripudiano, si scontrano e si evitano, o meglio, in termini
scolastici, si associano o si dissociano.
Cosa c’è di più
naturale – data l’analogia tra il mondo dei suoni e la nostra natura profonda –
del vedere nei movimenti dei suoni gli interpreti dei moti della nostra anima? Spontaneamente,
irresistibilmente, noi ci identifichiamo nei suoni che si dispiegano davanti a
noi; con essi saliamo e riscendiamo, ci dilatiamo e assottigliamo, ci
espandiamo e restringiamo. Quel suono che rimane sospeso a schiudere il suo
cuore sonoro è la nostra anima che plana. Quell’altro che si libra in volo e
sale è il nostro Io che si slancia. Quell’altro ancora che scende è il nostro
Io che cade nell’abisso. Alcuni suoni che si affrettano sono i nostri stati di
coscienza che accelerano. Altri che si attardano sono i nostri stati d’animo sospesi.
Altri ancora, dall’andatura convulsa, sono i nostri stati d’animo che affrontano
un ostacolo.
Ciò che la
musica è capace di esprimere è l’agitazione, la calma, il tentennamento, il
fremito, il palpito, lo slancio, il ripiegamento, la tensione, la distensione.
Ora, a tali stati d’animo che – sottolineiamolo – sono tutti fattori dinamici e
agogici, mezzi di movimento e di direzione di forze, si associano naturalmente
stati affettivi più definiti: all’agitazione l’inquietudine; alla calma la
serenità gioiosa; allo slancio l’aspirazione; al ripiegamento il pudore; alla
tensione la volontà e la gioia vitali; alla distensione la malinconia – e così
via. Eppure queste determinazioni, a guardarle bene, per quanto più vicine al centro
dove fermenta la nostra vita sentimentale e, quindi, a un preciso contenuto
sentimentale, rimangono traduzioni, nel linguaggio affettivo, di qualità
dinamiche. Sono direzioni di sentimenti e non sentimenti veri e propri. La mia
anima si eleva con quei suoni che salgono ma lo scopo verso il quale quelli
tendono – e verso il quale tende anche la mia anima dopo di loro – rimane
inesprimibile. Ed è perché è inesprimibile che ognuno di noi può interpretare e
interpreta, in sostanza, una pagina di musica sulla base delle preoccupazioni
che lo abitano nel momento in cui l’ascolta. L’innamorato «si eleva» fino al
volto della beneamata, l’ambizioso fino al luogo, al titolo e al posto di
lavoro tanto desiderati, mentre, per il finanziere, conta il valore su cui
specula e che vede «salire» a quote ignorate. È proprio questo che spiega come
la musica, pur rimanendo quel «linguaggio completo e chiuso» che abbiamo detto
di essere, possa diventare linguaggio universale, comprensibile, nel senso più
profondo, solo dal musicista. Tuttavia essa dice, a ognuno di noi, le parole
che vuol sentire, poiché siamo noi che insuffliamo in esse quel dato senso.
* * *
Se tali visioni
sono giuste potranno aiutarci a penetrare nel mistero della creazione di
un’opera musicale e della sua interpretazione. Può essere interessante
applicare questa teoria a un musicista come Schumann visto che, più di molti
altri musicisti, egli sembra non solo aver espresso sentimenti definiti ma aver
evocato – grazie a suoni, paesaggi e personaggi – scene della vita quotidiana.
Da un lato il carattere sentimentale della musica schumanniana è subito evidente.
Fervori torbidi, agitazione febbrile, angosce mortali, tenerezza tremante,
candore virgineo, ardori nuziali, lamenti languidi, malinconie, nostalgie,
sconforti laceranti, gioie «selvagge»: non è questo che sembra scaturire, in
modo chiaro e distinto, dai Davidsbündler,
dai Kreisleriana e dai Phantasiestücke? Dall’altro lato chi
meglio dell’autore dei Papillons, del
Carnaval, delle Scènes de la forêt e delle Visions
d’Orient è riuscito a far sorgere davanti ai nostri occhi, guidati
dall’orecchio, esseri e cose densi di realtà?
Guardiamo
comunque più da vicino. Innanzitutto l’impressione sentimentale con cui ci pervade
la musica di Schumann – tanto diversa da quella che suscita in noi la musica di
Mozart, di Beethoven e di Wagner – si spiega
semplicemente con il dinamismo suo proprio e con i sentimenti indissolubilmente
legati a quel dinamismo: l’agitazione e le sue febbri, l’incertezza e le sue
angosce, gli slanci contrastati e il loro sconforto, le distensioni e i loro
languori, il frazionarsi, lo spezzarsi dei ritmi e il loro ansimare. Tali
fattori dinamici della musica di Schumann, anche se non avessimo nessuna
testimonianza su di lui da parte sua né da parte di chi gli fu vicino, ci
permetterebbero di ricostruire il suo temperamento, il tonus generale della sua anima, di quell’anima spezzata in due e
sempre oscillante fra l’esaltazione e la depressione, fra l’allegria e la
nostalgia, fra il fervore creatore e la disperazione inerte.
Lo stesso vale
per quelle opere che rievocano scene e personaggi. Scegliamo la più nota, il Carnaval. Quanti critici si sono meravigliati
della straordinaria fantasia di questa raccolta, della giustezza e precisione delle immagini che Schumann vi ha
disegnato, che ha colorato, modellato e imposto imperiosamente alla nostra
immaginazione! Non sono forse così, vivi, eloquenti, riconoscibili da tutti,
Pierrot, il sognatore pallido dall’incedere trascinato, o Arlecchino, lesto, molle
e con quei suoi tipici balzi enormi, o ancora gli arzilli borghesi e le imponenti
borghesi che calpestano, in una Promenade,
il pavimento di una sala da ballo? Ebbene, noi sappiamo che tutta questa
cangiante fantasmagoria è stata immaginata dopo, «a cose fatte». «La mia
musica», ha detto lo stesso Schumann, «basta a se stessa, è abbastanza
eloquente per se stessa». Il Carnaval,
di fatto, non è che un tema – la, mi bemolle, do, si – con qualche variazione.
Una volta trovato il tema, «nella sua armonizzazione più dolorosa», e le
variazioni, egli ha concepito, «a cose fatte», l’idea del Carnaval. E, una volta che ne ha concepito l’idea, si è chiesto a
quali maschere potesse corrispondere, a seconda del dinamismo, ogni piccolo brano
che componeva la raccolta. Così è riuscito a mettere su, davanti a lui e
davanti a noi, quel Pierrot, quell’Arlecchino, Eusebio, Florestano, Chiarina,
Estrella e Coquette. Pur affermando che l’immaginazione musicale e l’immaginazione
plastica sono concomitanti, Schumann dice espressamente che «un compositore non
prende mai carta e penna con la vile intenzione di esprimere questa o
quest’altra cosa, di descrivere, di raffigurare».
Dunque il
musicista può evocare, per associazione, sentimenti e anche scene e personaggi.
Bisogna però tenere a mente che si tratta pur sempre di associazioni, che
quelle associazioni sono di una estrema malleabilità e che quella tal frase
calma, a seconda degli uditori, può ricordare una schiarita dopo la tempesta,
una radura nella foresta, la facciata di un tempio greco, una fisionomia dolce
e serena.
Una volta d’accordo
su questo, come potremo, però, interpretare un brano musicale? Seguendo scrupolosamente
il cammino descritto fin qui. Prima dobbiamo entrare nel brano, identificarci
nei suoni, viverne la vita, lasciarci trasportare dall’onda sonora come un
nuotatore che aderisce a tutti i movimenti dei cavalloni dai quali è trasportato.
È possibile descrivere i movimenti dell’onda sonora come è possibile disegnare
la linea della melodia. Una si leva con slancio, ampliandosi, sviluppandosi,
dischiudendosi secondo la legge della sua genesi sonora, planando sicura di sé,
libera, ampia, piena di grazia, per poi tornare, mentre descrive una bella,
languida curva, al punto di partenza. Un’altra, che sembra staccarsi
dolorosamente dall’anima del musicista, descrive una linea spezzata,
tormentata, convulsa, fatta di choc, soprassalti, ripiegamenti e soste, scossa febbrilmente
da brividi, non solo in lotta con le forze esterne che la trasportano ma con
gli elementi contrastanti della sua stessa sostanza. Altre ancora seguono
traiettorie diverse. Tutte queste particolarità della linea melodica, e non
solo della linea melodica ma dell’armonia, del ritmo e dei timbri, – si tratti
di un brano d’orchestra o di una musica da camera – noi le possiamo descrivere
ma, per poterle descrivere, le dobbiamo vivere: salire, scendere, sospendersi,
fermarsi, riprendere slancio, straziarsi, ricostruirsi, tornare al punto di
partenza per ritrovare la strada finché, dopo tante erranze, svanire piacevolmente
alle porte di casa. Poi le dobbiamo associare, o meglio associamo spontaneamente
in noi e, meglio ancora, si associano in noi a quei movimenti le direzioni
sentimentali di cui sono i segni. Infine, se non temiamo le audacie
avventurose, possiamo andare anche oltre e cercare di intuire il senso della
direzione dei sentimenti, la mèta verso cui tendono e anche il loro contenuto. Il
musicista che, scrivendo un’opera, è stato dominato da un sentimento – gioia,
malinconia, eccitazione, depressione – e che «è stato sorpreso nel bel mezzo
delle sue fantasie», come dice Schumann a proposito di Beethoven, «da qualche
grande idea – l’idea di immortalità, l’idea del lutto suscitato in qualche nobile
cuore dalla caduta di un eroe..., assalito da qualche visione – «l’Italia, le
Alpi e il mare, un’alba primaverile»[22] – imprime
al contorno delle sue melodie, al gioco delle armonie e dei suoi ritmi, il
carattere generale della propria disposizione d’animo e desta negli uditori,
grazie al titolo, associazioni che permettono di riprodurre in loro emozioni o
immagini che hanno ossessionato la mente dell’artista e di cui si è liberato
nella sua opera andando a popolare, con un minimo rischio di sbagliare, le onde
mobili dei suoni.
* * *
Abbiamo risolto del
tutto il problema che ci siamo posti? Non mi sembra. Noto, rileggendo quanto ho
scritto nella concezione appena esposta, una lacuna che è utile colmare. E,
facendolo, ci addentreremo nel cuore stesso della questione.
La nostra teoria
è fondata sull’analogia profonda che c’è tra il mondo dei suoni e il mondo
della coscienza. Ciò che accomuna l’uno all’altro – lo abbiamo mostrato – è il
fatto che gli elementi che li compongono sono in continuo movimento, si
susseguono ininterrottamente, sono dominati dalla categoria del tempo. È proprio
perché i suoni e gli stati di coscienza fuggono, scorrono e fluiscono senza
sosta che noi identifichiamo istintivamente i suoni con i nostri stati di
coscienza e che i movimenti dei suoni ci sembrano quelli della nostra stessa
anima.
Una simile
identificazione è proprio così naturale? L’uomo primitivo, il bambino, l’uomo
incolto, nei quali l’Einfühlung, in musica, è spontanea e intima quanto
negli adulti civilizzati, sono capaci di essere colpiti dal carattere
consecutivo dei mezzi d’espressione della musica e dei nostri stati psichici? O
non è questa una tardiva acquisizione della scienza che sfugge alla maggior
parte dei cultori musicali e degli stessi musicisti?
Si potrebbe dire
che l’Einfühlung musicale è un caso
di Einfühlung più generale? Che c’è
un legame psicologico primitivo, centrale, fra i suoni e gli stati psichici? Che
una sorta di istinto ereditario ci spinge a tuffarci nel mare sonoro e a riconoscere,
in ogni brivido di quelle ondate, i fremiti della nostra anima? O è forse
questa una soluzione semplicistica? Inoltre, non potremmo opporre a questo ragionamento
l’obiezione seguente: perché l’àmbito della musica è l’àmbito prediletto dell’Einfühlung? Noi sappiamo che le nostre
immagini visive, che sembrano esserci date contemporaneamente, sono anch’esse,
come tutto ciò che solca la coscienza, in un divenire e in un moto continuo.
Sappiamo che se ci sembra di abbracciare con un semplice sguardo una distesa
colorata o la facciata di un monumento, tale impressione d’insieme è, in realtà,
la somma delle impressioni frammentarie che si susseguono in noi. E sappiamo,
infine, che l’espressione musicale non è così dominata dal tempo come potrebbe
sembrare, che la simultaneità vi trova posto e che se non fossimo capaci di
rimescolare in uno stesso tutto gli elementi di cui è composta l’opera musicale
e di avere quel tutto presente alla coscienza come un tutto, saremmo incapaci
di dominare l’opera e di giudicarla.
Dobbiamo quindi spiegare
con altre ragioni il carattere spontaneo e irresistibile dell’Einfühlung. Vediamole. Ogni emozione e
ogni sentimento forte tendono a esprimersi attraverso un meccanismo psicologico
che nessuno contesta. Tale modo di esprimersi consiste sia nel gesto che nel
suono. Probabilmente noi non associamo affatto alla musica il grido e
l’onomatopea che costituiscono le manifestazioni elementari dei sentimenti. E
non pretendiamo che da quelle grida sia sgorgato il canto e, dal canto, tutta
la musica. Questo è un altro problema che non dobbiamo trattare qui. Sicuramente
noi non confondiamo mai del tutto il grido, espressione spontanea e
irresistibile dell’emozione, con il canto che obbedisce a leggi proprie e che
il grido nemmeno conosce. Quello che conta e che bisogna tenere a mente è che
la voce, organo dei suoni, traduce naturalmente i sentimenti che ci agitano.
Quando sentiamo dei suoni prodotti da altri vi percepiamo l’espressione dei
loro sentimenti e li interpretiamo analogamente ai nostri. E quando sentiamo
dei suoni prodotti non più da esseri umani ma da strumenti musicali, grazie
ancora a un ragionamento analogico, quei suoni ci appaiono anch’essi esprimere
dei sentimenti. In questo caso il ragionamento analogico è così semplice e
risponde così bene alle nostre tendenze antropomorfiche che l’uomo primitivo,
il bambino e l’uomo incolto ci paiono perfettamente capaci di esprimerli. Una
volta che abbiamo identificato il mondo dei suoni con quello dei sentimenti e
che il transfert si è realizzato, entra in gioco l’interpretazione dinamica di
cui abbiamo descritto il meccanismo.
La musica, quindi,
ricapitolando, può esprimere realmente e direttamente solo se stessa. Ciò
nondimeno, essendo capace di restituire il dinamismo di tutti i sentimenti, di
tutte le passioni e anche di tutte le creazioni intellettuali, può essere idonea
a tradurre la vasta gamma dei sentimenti, indirettamente e analogicamente, con tutto
ciò che ogni traduzione implica di «tradimento» e ogni analogia di possibilità
di sbagliare.
[1] Kritik der reinen Vernunft, Hartenstein, 1867, III, p. 81.
[2] Kritik der reinen Vernunft, p. 98 e 99.
[3] Ibidem, p. 576.
[4] Anthropologie, Hartenstein, t. VII, da p. 481 a p. 512.
[5] Kant a Jacob Sigismond Beck, 20 gennaio
1792, Kant Gesammelte Schriften,
Éditions de l’AcadPmie Royale de Prusse, t. XI, p. 301.
[6] Kritik. der reinen Vernunft,
p. 579.
[7] Cfr. Dr Alfred Hölder, Dartellung des Kantischen Erkenntwisstheorie, Tübingen,
1873, p. 51 e 45.
[8] Kritik. der reinen Vernunft,
p. 558.
[9] Ibidem, p. 569.
[10] Hölder, loc. cit.,
p. 52.
[11] Kant a Iacob Sigismond
Beck, 1 luglio 1794, loc. cit, p. 496.
[12] Kritik. der reinen Vernunft, p. 572.
[13] Kant a Iacob Sigismond Beck, ibid.
[14] Kritik. der reinen Vernunft, p. 578.
[15] Ibidem.
[16] Kritik. der reinen Vernunft, p. 582.
[17] Con il nome di sintesi
trascendentale dell’immaginazione esso (l’intelletto) esercita… Kritik. der reinen Vernunft, p. 128.
[18] Kritik. der reinen Vernunft, p. 143 e 142.
[19] Kritik. der reinen Vernunft, p. 67.
[20] Ibidem, p. 128.
[21] «Lasciami, lasciami
contemplare il tuo viso»: versi di un’aria di Charles Gounod Faust. [Nota del
traduttore].
[22] Robert Schumann, Gesammelte Schriften über Musik
und Musiker, Leipzig , Reclau, t. 1, p.
108 e 109.
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