venerdì 18 aprile 2014

Presentazione dell’Elogio della Filosofia di Merleau-Ponty

Presentazione dell’Elogio della Filosofia di Maurice Merleau-Ponty
Roma, 15 aprile 2014
Aula Magna del Liceo Gelasio Caetani - Roma
http://www.edizionisolfanelli.it/elogiodellafilosofia.htm

Ringrazio il prof. Gianluca Valle per avermi invitato a presentare questa nuova preziosa pubblicazione dell’Elogio della Filosofia di Maurice Merleau-Ponty (a cura di Carlo Sini, Postfazione di Gianluca Valle, Chieti, Solfanelli, collana Arethusa, 2013, pp. 96, 9 euro). Tale invito mi è particolarmente gradito perché ha anche esso il sapore di un’esortazione alla filosofia, proprio come il testo che vi stiamo per proporre. Si tratta di uno scritto insieme poderoso e agile dalla cui lettura, fluida e scorrevole e che non prende più di un paio d’ore, si può trarre tutto l’appagamento di un vero e proprio mini-percorso filosofico. La sua freschezza espositiva conserva la chiara impronta di un discorso pronunciato a persone in carne ed ossa. Si tratta infatti della lezione inaugurale al Collège de France tenuta dal grande fenomenologo francese morto nel 1961 a soli 53 anni. Stupisce che un testo così prezioso, tradotto e brevemente introdotto da Carlo Sini ormai trent’anni fa, sia stato editorialmente negletto nel recente clima di ripresa d'interesse per gli studi fenomenologici. Dobbiamo alla solerzia un po’ sfrontata del direttore della collana Arethusa questo doveroso ripescaggio. 

Dalla lucida Postfazione di Gianluca Valle, nutrita e nutriente, apprendiamo che questo scritto «si inserisce nel solco delle tradizionali esortazioni alla filosofia che, specialmente nell’Antichità, avevano il compito di avvicinare i giovani a questa peculiarissima forma di sapere». Esso contribuisce a ribadire «il carattere necessario dell’attività filosofica». 

Era il 1953. In quello stesso anno il dissidio tra Merleau-Ponty e Sartre raggiungeva il culmine. Sul piano politico Merleau-Ponty non poteva più condividere il totale appoggio di Sartre alle posizioni dell’URSS e del partito comunista francese e si volgeva verso posizioni socialiste; sul piano più strettamente filosofico prendeva le distanze dalla prospettiva sartriana. Essa si fondava sul dualismo cartesiano di res extensa e res cogitans, ossia sulla contrapposizione tra il per-sé, quale puro non-essere, e l’in-sé, quale puro essere e finiva in tal modo per risultare una filosofia riflessiva o del “soggetto puro”. Merleau-Ponty, invece, approfondendo la tematica husserliana del mondo-della-vita, rigettava tale supposta trasparenza dei rapporti io-mondo e rivolgeva la sua attenzione alla vita irriflessa e fungente del corpo – una struttura anteriore alla stessa distinzione soggetto-oggetto e capace di un’esperienza percettiva anonima. «Se volessi tradurre esattamente l’esperienza percettiva», scriveva il filosofo, «dovrei dire che si percepisce in me e non che io percepisco». 

Non c’è un io, non c’è un soggetto esterno al mondo capace di una presa obiettivistica, ma un corpo vivente «che non ha bisogno di uscire da sé per raggiungere le cose stesse: egli è interiormente sollecitato e assillato da esse». Questo corpo è il medium in cui si costituisce il rapporto tra soggetto e oggetto, tra io e mondo; è un universo di «promiscuità», di «latenza», di «sostituzioni», di «inversioni», di «scambi tra anima e corpo, tra io e l’altro, tra il presente e il passato, tra l’immaginario e il reale». E questo rapporto è il ritratto del rapporto che il filosofo ha con l’essere: non il «rapporto frontale che ha lo spettatore con lo spettacolo» ma «una sorta di complicità, una relazione obliqua e clandestina», un «rapporto ossessivo» con qualcosa che «è là, davanti a noi, e tuttavia ci raggiunge dal di dentro». Non appena cerchiamo di oggettivare l’essere, di porlo di fronte a noi, di razionalizzarlo, quello riprende mostruosamente a sgorgare da dentro di noi fino a sommergerci, a travolgerci ma anche ad accoglierci e a sostenerci. Così, per un verso ci pare di coincidere con esso, di non esser altro che muta inerenza; per l’altro, quando attraverso di noi l’essere si rivela, scopriamo che «ciò che si riteneva essere coincidenza è coesistenza», cioè un rapporto ben più articolato di azione reciproca. Lo spirito incarnato nel corpo «non è più l’indivisione pura» ma «’lo sforzo di raccogliersi’ tra i due limiti del ricordo puro e dell’azione pura», lo sforzo cioè di restare immersi nella percezione – una «lettura di cui siamo capaci perché portiamo incarnato nel nostro essere l’alfabeto e la grammatica della vita». La percezione è la «condizione umana» stessa e, in quanto tale, non si può abbandonare. Essa è «il sapere assoluto del filosofo», è il luogo originario in cui accade il mondo, il filo conduttore che apre il nostro esserci all’alterità. Così come «l’espressione si compie solo rinunciando a coincidere con ciò che è espresso» e così come «la filosofia ha a noia il già costituito», allo stesso modo nella percezione il toccato e il toccante coesistono senza coincidere. La pelle e il tessuto carnale sono metafora della comune appartenenza di io e mondo. L’immagine del corpo capace di sdoppiarsi esemplifica la condizione stessa dell’esercizio filosofico, cioè il distacco, l’epoché. Ora vi invito, mentre leggerò queste poche righe, a sperimentare su voi stessi l’azione che qui viene descritta. Dovreste dotarvi di un qualcosa da tenere nella mano destra. E potrei scommettere che 8 su 10 avranno in mano il telefono! 

«La mia mano sinistra è sempre sul punto di toccare la destra intenta a toccare le cose, ma io non giungo mai alla coincidenza, essa si eclissa nel momento di realizzarsi, e ci troviamo sempre di fronte a questa alternativa: o veramente la mia mano destra passa nella condizione di toccato, ma allora la sua presa sul mondo si interrompe, - oppure la conserva, ma è allora che io non la tocco veramente, in se stessa, e con la mia mano sinistra ne palpo solo l’involucro esteriore» (M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Milano, Bompiani, 1998, p. 163). 

Questo sdoppiamento, a ben guardare, può essere ricondotto a quello che è necessario al parlare affinché il parlare abbia senso: oltre a parlare io devo anche ascoltarmi. È possibile parlare sensatamente senza ascoltarsi? Oppure tale sdoppiamento rimanda alla duplicazione della «volontà di parlare» che «è tutt’uno con la volontà di essere compresi» Tale capacità di prendere le distanze, leggiamo nell’Elogio, oltre ad essere intrinseca alla percezione, che, come abbiamo visto, è equiparata da Merleau-Ponty al sapere filosofico, permea anche la storia. Non la storia che sa già dove «andrà ineluttabilmente a parare», la «storia universale di Hegel che è il sogno della storia. Come nei sogni, tutto ciò ch è pensato è reale e tutto ciò che è reale è pensato e gli uomini non possono far nulla che non sia già compreso nel sistema». Ma la storia intesa, con il giovane Marx, come quella contingenza che non contraddice una logica prestabilita. La storia come quel «contesto nel quale si forma ogni senso», come quell’ambito reale nel quale si forma il movimento della praxis, l’«incontro delle azioni con le quali l’uomo organizza i suoi rapporti con la natura e con gli altri uomini», l’«evento intersoggettivo» che «acquista il valore di una genesi della ragione». La stessa capacità di non creare aderenze assolutizzanti tra lo spirito e la cosa ricorre, come messo a fuoco da Saussure, nel linguaggio vivente, dove l’esecuzione linguistica individuale (parole) spesso si stacca dalla lingua comune (langue) affermando uno stile personale potenzialmente innovativo a meno che non si stia usando un linguaggio molto stereotipato. Anche il pittore, ricorda Merleau-Ponty, «non conosce la legge organizzativa dei suoi atti» e «Bergson aveva torto di credere che il quadro sia un atto semplicemente proiettato sulla tela; esso è invece il punto sedimentato di una serie di sforzi di espressione», permane cioè sempre uno scarto rispetto alla norma che non è impedimento ma possibilità di agire liberamente. Grande maestro di questo distanza filosofica è poi Socrate: «L’ironia di Socrate è un rapporto distaccato ma veritiero con l’altro; essa esprime che ognuno non è che se stesso, ineluttabilmente, e nondimeno si riconosce nell’altro». La distanza in questione non riguarda solo il rapporto tra le persone ma il rapporto di ognuno con la verità: «Socrate non sa più degli altri, sa soltanto che non c’è un sapere assoluto e che è per questa lacuna che noi siamo aperti alla verità» 

Come si è cercato di mostrare in Merleau-Ponty «l’epoché», precisa opportunamente Gianluca Valle nella sua ricca e accurata Postfazione che riempie un buco ermeneutico di trent’anni, «non ha lo scopo di restaurare una concezione idealistica per cui tutta la realtà è posta all’interno della coscienza ma serve a riscoprire il legame indissolubile tra io e mondo». «Sul modo d’intendere l’autoimmanenza della coscienza», inoltre, Merleau-Ponty «prende le distanze da Husserl», dal «mito della piena presenza a se stessa» della coscienza costituente husserliana. Non per questo arriva mai a ricusare «il più grande insegnamento dell’epoché husserliana», cioè «l’impossibilità di una riduzione completa giacché la vita irriflessa continua a fungere al di là di qualsiasi tentativo di riappropriazione riflessiva». «Quale che sia l’essenza intima di ciò che è e di ciò che si fa … noi ci siamo dentro», il che significa, spiega il filosofo, che «tutti gli esseri creano una simbolica della nostra vita ed è sempre la nostra vita che leggiamo in essi». Anni prima Wittgenstein, che Merleau-Ponty non conosceva, sembrava aver posto le premesse di questa affermazione scrivendo: «L’ideale, nel nostro pensiero, sta saldo e inamovibile. Non puoi uscirne. Devi sempre tornare indietro. Non c’è alcun fuori; fuori manca l’aria per respirare …» (Ricerche Filosofiche, § 103) La verità, intendono dire entrambi i filosofi, come acutamente nota Gianluca Valle, non sta in una realtà esterna di cui sia possibile dare una «rappresentazione adeguata» secondo la «teoria della verità come corrispondenza» quanto in quella «rappresentazione perspicua» che può esprimerla. Si tratta di un’espressione costruita «sui nessi», sui «rimandi interni», sui rapporti laterali, le parentele, i rivolgimenti e gli scambi. «Il miracolo dell’espressione», considera poi Gianluca Valle con parole suggestive, «consiste nel recuperare un contatto con l’essere che non è davanti ma intorno a noi, nel far parlare le cose senza trasformarle in oggetti ideali», visto che «se la verità fosse coincidenza con le cose sarebbe muta». 

«La verità di un essere non è ciò che egli è divenuto alla fine, o la sua essenza: è il suo attivo divenire, la sua esistenza», si legge nella prima delle tre note che Merleau-Ponty aggiunge alla fine del libro. Poco prima aveva considerato: «ciò che vi è sempre di incoativo, di mancato e perturbante nel presente non è più un segno di una nostra realtà inferiore». Ma che senso può avere per dei ragazzi come voi una parola apparentemente così tecnica come quella di verità? Per avvicinarci ad un’esperienza filosofica, ma anche solo per accendere la nostra attenzione rispetto a ciò che studiamo, dobbiamo girare e rigirare intorno alla questione, rimasticarla lentamente, corteggiarla senza fretta fino a quando, proprio come faremmo con una persona che vogliamo conoscere, cominciamo a scoprirne quell’aspetto particolare per il quale ci interessa e per il quale vale la pena stringere la conoscenza. Ma dobbiamo fare un certo sforzo, uno sforzo semplice e difficile insieme, sforzarci ad attendere con pazienza tutto il tempo necessario affinché il nostro semplice guardare si tramuti in vedere, in notare, in un cogliere e discernere dettagli che sembravano non esserci. Dobbiamo soffermarci, rallentare i pensieri e dirigerli verso la ricerca di qualche esempio attinto dalla nostra vita quotidiana - di qualche immagine, di qualche episodio, o emozione – capace di dialogare con quella questione e di entrare con essa in una risonanza che abbia quegli accenti familiari in cui possiamo riconoscerci e cominciare il nostro viaggio socratico di autoconoscenza. 

La questione da cui parte Merleau-Ponty è dunque la verità. Immaginiamo ora che Federica chieda a Carlo: «Carlo, ma tu mi ami?». Carlo risponde: «Sì, ti amo». Poco dopo Federica tutta contenta d’essere ricambiata in amore incontra l’amica Ilaria che mogia mogia le confessa di essersi appena baciata con Carlo. Improvvisamente per Federica la verità diventa qualcosa di molto importante, potremmo dire che essa diventa la sua urgenza, la sua emergenza. Ma questa questione non ha preso tutta la forza che ha preso al di fuori della vita bensì dentro di essa, all’interno delle relazioni che Federica ha con gli altri. Tenendo a mente il guaio in cui si è venuta a trovare Federica, nonché Carlo e Ilaria, leggiamo ora questo bellissimo passaggio di Merleau-Ponty e cerchiamo di percepire se in esso vi sono idee che possono aiutare la situazione particolare: 

 «…non c’è un luogo della verità dove si debba andare a cercarla costi quel che costi, anche spezzando i rapporti umani e i legami della vita e della storia. Il nostro rapporto con la verità passa attraverso gli altri. O andiamo verso la verità con loro o non è verso la verità che andiamo. Ma il colmo della difficoltà è che, se la verità non è un idolo, per parte loro gli altri non sono dèi. Non c’è verità senza di loro, ma non è sufficiente essere con loro per raggiungere la verità».              

I fatti sono forse noti ma qual è il loro significato, qual è la loro verità? Quel bacio era uno scherzo, un dispetto, una vendetta, con che intenzione si sono baciati? Hanno pensato alle conseguenze oppure se ne sono infischiati? O forse l’attrazione era irresistibile? O forse lo hanno fatto per superficialità? Merleau-Ponty ci dice che la verità è una nozione della quale possiamo disporre non prima del rapporto con gli altri ma grazie al rapporto con loro. Per questo stesso motivo troviamo scritto in questo testo che Socrate preferì la condanna a morte all’esilio perché «pensava che non si può essere giusti da soli, che esserlo da soli equivale a cessare di essere giusti». Questa cosa la credeva anche Aristotele a proposito della felicità, che essa non ha senso senza amici.

Ma per convincerci ulteriormente riguardo alla natura sociale della verità e quindi del senso delle cose pensiamo a quel film, Into the wild, lo conoscete? Chi lo conosce? Mi riferisco all’episodio in cui il ragazzo, che cerca di sopravvivere da solo in una natura selvaggia, raccoglie una bacca, la mangia e muore avvelenato. La conoscenza che aveva della bacca non era una conoscenza veritiera. Ancora vediamo che la nozione di verità è legata al nostro rapporto con gli altri, anche se la presenza degli altri non è che un lascito di competenze botaniche, un patrimonio culturale di conoscenze indispensabili a vivere. Senza la nozione di verità l’essere umano non può vivere. A differenza dei vegetali, degli animali e dei minerali, l’essere umano per esistere deve conoscere la sua esistenza, deve cioè confrontarsi con la questione della verità. Ora capiamo meglio perché Merleau-Ponty ci tiene a spiegare che la verità non è qualcosa di prestabilito e neanche un risultato ma è qualcosa che sta sempre all’inizio, che sempre dobbiamo cominciare a fare, che è cioè incoativa. Oggigiorno passiamo molto tempo della nostra vita a simulare la verità davanti al computer. Le simulazioni non sono un male di per sé. Lo sapete bene quando fate le simulazioni delle prove di maturità. Sono esercitazioni importanti ma non corrispondono alla verità. Per quale motivo?

C’è una differenza fra il pensare/immaginare/sognare/sperare di fare un esame e il farlo davvero. La differenza sembra nota a tutti, sembra lampante ma in effetti a poco poco noi andiamo perdendo il senso pulsante di quella differenza perché comunque la virtualità ci emoziona, ci smuove dentro, sembra che ci faccia sentire vivi lo stesso. Merleau-Ponty ci aiuta a rinfrescare il senso di questa differenza tra virtualità e verità: egli mette in risalto il fatto che nella virtualità le cose non sono vere soprattutto perché non danno inizio a un accidente di niente. È come stare dentro a un’automobile senza mai accenderla per farla partire. È come mordersi la coda. La verità, invece, è tale quando ci afferra e ci coinvolge imprimendo alla vita una direzione, un senso di marcia. Se sbagliamo strada, se ci pare di stare sempre all’inizio, se siamo spaventati o ci sentiamo inadeguati non è segno di una realtà inferiore, precisa Merleau-Ponty. La cosa più importante è non sottrarsi dal cerchio magico della percezione, dei rapporti con gli altri, con se stessi e con le cose perché sono queste le condizioni per poter farsi abitare dalla verità e dalla varietà delle sue distinzioni, più o meno consapevoli.    

«La peculiarità del filosofo», scrive Merleau-Ponty, «è il movimento incessante che dal sapere riconduce all’ignoranza e dall’ignoranza al sapere». E questo scritto è una esortazione affinché tutti siano filosofi, a che la filosofia, come dice Franca D’Agostini, sia finalmente presa in considerazione come un’ipotesi antropologica degna di valutazione. In questo dondolio tra il sapere e l’ignoranza non dobbiamo dimenticare i momenti di stasi, quelli che prima abbiamo chiamato distacchi, sospensioni, epoché, dobbiamo anzi allenarci, dobbiamo educarci a fare entrare quell’istante effimero dentro le nostre attenzioni sempre più fragili e instabili. In quali situazioni si può trovare questa stasi? Per esempio nel respiro. Prima che l’aria entri e prima che l’aria esca dai nostri polmoni c’è una stasi cui solitamente non prestiamo attenzione. In questa stasi si può osservare il movimento nel suo stato potenziale. Altra stasi importantissima è quella tra una parola e un’altra, la stasi del silenzio, una cornice senza la quale le parole finiscono per significare tutte la stessa cosa. Questa stasi è quindi anche lo spazio del discernimento, è una sospensione dell’azione di cui è possibile approfittare per ri-aggiustare il tiro dell’azione stessa, per rendere l’azione più consapevole, ovvero, come dice Merleau-Ponty, per agire filosoficamente.

Ma è anche lo spazio dell’infra interpersonale che non è un impedimento o una riduzione del soggetto; è ciò senza cui il soggetto sparirebbe perché è solo grazie all’introiezione di quello spazio tra sé e l’altro che il soggetto impara a porre uno spazio di ascolto dentro di sé, che è la condizione per cui può costruire mondi di significati (se il soggetto non ascoltasse ciò che dice, se cioè non riflettesse sui suoi moti semantici, sulle sue significazioni, esse non sarebbero diverse da eventi impersonali. ). Questa stasi è anche quel distacco tra le persone cui è essenziale prestare attenzione per poter stare davvero insieme con gli altri invece che appiccicarsi loro in una relazione irrispettosa e violenza che schiaccia le differenze invece di fare loro spazio perché possano germinare. La stasi è lo spazio o il tempo dell’ascolto che non solo dobbiamo alle parole altrui ma anche alle parole che noi stessi pronunciamo se vogliamo che esse non siano ripetizione di un pensiero già pensato ma la nascita di un nuovo pensiero, l’espressione che il pensiero sta vivendo in noi piuttosto di essere qualcosa di ricordato.

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